Varie
Leggendaria n.145, Libri Letture Linguaggi – 25° Anniversario
“Scatenare la parola Dio per ritrovare l’umano”
Matilde Passa intervista Gabriella Caramore
Liberarla dalle catene della Storia, come diceva Lutero, è l’unico modo per ridare senso a una parola consumata, usurata, utilizzata per ogni fine.
Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo» Qohelet. «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao»,
Lao Tze. «Tutta la Torah è il nome di Dio», lo Zohar. Innominabile, impronunciabile eppure sempre nominato, definito, travisato.
Con La parola Dio, testo dal quale abbiamo estratto le citazioni, Gabriella Caramore entra con lucidità, competenza e passione dentro una storia della parola «che gli steccati delle dottrine hanno stravolto e inaridito». Un testo di una tale densità da aprire innumerevoli percorsi che ci chiedono di «assumerci la responsabilità di setacciare queste parole se vogliamo essere di un qualche soccorso al mondo». …
Riforma 2020, Settimanale delle Chiese evangeliche battiste, metodiste, valdesi
“La comune tensione per la verità”
Gabriella Caramore con Paolo Ricca
Fototessera n. 5. Le precedenti con Maria Paola Rimoldi, Annapaola Carbonatto, Matteo Ferrari, Fulvio Ferrario
Presentare Gabriella Caramore, veneziana di nascita e romana di adozione, ai lettori di Riforma può essere superfluo, dato che molti la conoscono bene soprattutto perché ha condotto su Rai RadioTre, dal 1993 al 2018, la rubrica di cultura religiosa Uomini e Profeti con due puntate settimanali – una conduzione che non esito a definire “magistrale” sia per la vastità dell’orizzonte in cui si è mossa sia per la qualità dei temi trattati e degli oratori invitati, sia infine e soprattutto per la sua capacità, davvero fuori dal comune, di intavolare dialoghi veri e profondi con diversi tipi di interlocutori, riuscendo, grazie a una sua speciale dote maieutica, a ottenere da loro il massimo di quello che potevano dare. ….
Leggi qui l’intero articolo
Il Dibattito.
“La chiesa che verrà. All’indomani della pandemia”
A cura di Vittoria Prisciandaro.
Con Gabriella Caramore, Stella Morra, Paolo Naso, Massimo Faggioli, padre Antonio Spadaro
Jesus, maggio 2020
https://www.famigliacristiana.it/media/pdf/jesus/je2005_dossier-chiesa_lt.pdf
POESIA 338
Direttore Nicola Crocetti
Mensile internazionale di cultura poetica
Anno XXI, Giugno 2018, n° 338
Gabriella Caramore, “Endre Ady. Il perdono della luna.”
Con una piccola antologia poetica
Vedi il numero di giugno di Poesia, mensile internazionale di cultura poetica
Etty Hillesum
UN ARDORE ELEMENTARE. ETTY HILLESUM TRA DIO E MONDO.
Goethe Institut, Roma – 23 gennaio 2002
Occorre fare subito una duplice precisazione, parlando della “spiritualità”[1] di E. H.. La prima è che “spiritualità” non è una espressione che si addice a Etty: è troppo vicina a “spiritualismo”, è parola troppo astratta dalla vita reale, concreta, intrisa di terra degli esseri umani per poter essere attribuita a Etty. E tuttavia poiché avremmo problemi anche con “religiosità”, o con “fede”, per ora ci accontenteremo di questa, per indicare il rapporto con Dio che lentamente ma senza ambiguità Etty sviluppa nel corso della sua breve vita. …
[1] V. Uomini e Profeti, giugno 1996
Un ardore elementare. Etyy Hillesum tra Dio e mondo
Occorre fare subito una duplice precisazione, parlando della “spiritualità”[1] di E. H.. La prima è che “spiritualità” non è una espressione che si addice a Etty: è troppo vicina a “spiritualismo”, è parola troppo astratta dalla vita reale, concreta, intrisa di terra degli esseri umani per poter essere attribuita a Etty. E tuttavia poiché avremmo problemi anche con “religiosità”, o con “fede”, per ora ci accontenteremo di questa, per indicare il rapporto con Dio che lentamente ma senza ambiguità Etty sviluppa nel corso della sua breve vita. La seconda precisazione è che non ci vogliamo occupare della “spiritualità” o “religiosità” di Etty come di una parte separata della sua vita, come di un aspetto della sua esistenza, come di una dimensione della sua persona. Il crescere del suo rapporto con Dio non è separato dal maturare della sua umanità, del suo “compromettersi” con gli esseri umani che incontra, e dal crescere della sua statura interiore. Inoltre la vita di E.H. è talmente densa e vissuta con tale pienezza che ogni cosa, in lei, slitta da un piano all’altro.Tuttavia ne parliamo in primo luogo forse proprio perché la stretta connessione tra Dio e mondo è l’aspetto che più ci parla della figura di Etty (v. la percezione immediata delle detenute di Rebibbia), e perché pensiamo che lì, alla fine, vada a confluire il fiume di umanità che percorre e, di fatto, travolge la sua esistenza.
C’è però un’altra premessa da fare. Ed è che dobbiamo impedirci di scrutare nella religiosità di Etty Hillesum come se fosse una teologa che ha elaborato una sua visione di Dio e del mondo. Quella di Etty è semplicemente un’esperienza di vita vissuta, di fede vissuta, e vissuta con una grande ricchezza e libertà. E noi proprio per questo vi gettiamo sopra lo sguardo, magari con una certa indiscrezione. Ma perché sappiamo così poco che cosa può essere la fede negli esseri umani, è così raro incontrarne qualcuno, che quando ci acade siamo tentati, ma anche dobbiamo esserlo, di vedere di che cosa si tratta.
Detto questo, dividerei questo piccolo percorso che ora faremo in tre tappe. La prima è poco più di una premessa, e ci aiuta a comprendere la formazione, la “storia” della spiritulità di Etty Hillesum. Vogliamo capire da dove Etty attinge la sua visione religiosa, la sua adesione al Dio cui si rivolge nel calore della sua stanza (“il più bel posto di questa terra”), ma anche nel momento in cui parte in treno per Auschwitz con i suoi familiari. Vogliamo capire per quali vie il pensiero, e la realtà, di Dio si fa strada in lei. In definitiva, qual è il suo apprendistato, se così si può dire, della fede.
In secondo luogo vorrei considerare qual è la fede di Etty: come si esprime, di che cosa è fatta, dove la porta. E questo è il percorso forse più interessante.
E infine proverei a dire che cosa può rimanere a noi, oggi, di un’esperienza di fede come questa, in un momento in cui siamo un po’ sovrastati o dalle fedei fondamentaliste, o da quelle troppo invasive nella vita pubblica, o da quelle che fanno troppo spettacolo, e così via.
- “Ho aperto a caso la Bibbia…”
Etty, come si sa, proviene da una famiglia di ebrei ben integrati, fino alla promulgazione delle leggi razziali, nella Amsterdam dei primi decenni del Novecento (Etty nasce nel 1914). Non pare che la sua sia stata un’educazione particolarmente religiosa, ma noi dobbiamo tener conto del rapporto specialissmo che ogni ebreo ha con la propria appartenenza, con la propria tradizione, con il testo biblico. Da ragazzina imparò anche un po’ di ebraico al ginnasio, ma non è dalle consuetudini domestiche che Etty apprende la sua familiarità con Dio. O, per lo meno, non soltanto. La cosa particolarmente affascinante a cui assistiamo nella lettura del Diario, e poi anche delle Lettere, è questo speciale e felice incontro tra una acquisizione “recente” di “spiritualità”, mediata attarverso le cose che sappiamo (Spier, le letture, la storia soprattutto), e il riaffiorare di qualcosa che sembra da sempre dentro di lei: quel Dio a cui sa come rivolgersi: perché il suo parlare con Dio è a un tempo nuovo, sorgivo, aurorale, e insieme consonante con il linguaggio che la tradizione ebraica le ha tramandato. Vedremo in che modo e perché. Certamente, Etty questa ricerca di Dio la matura attraverso la conoscenza e il profondo rapporto di crescita e d’amore con Julius Spier. Ha bisogno di una figura di mediazione, prima di “avere il coraggio” di nominare Dio. E’ il suo amante – che è ebreo, anche se di un ebraismo certamente non ortodosso, seguace di Jung, di terapie analitiche di vario genere – che le parla in modo tale da “disseppellire Dio” dentro di lei, dandogli vita, e “facendo sì che lei a sua volta debba “continuare a scavare e a cercare Dio in tutti i cuori degli uomini che incontro, in qualsiasi angolo di questa terra” (11 settembre 1942). Il fatto che Etty abbia bisogno di un mediatore, di un maestro, di un amante per arrivare a incontrare Dio è qualcosa che non diminuisce, ma accresce lo spessore della sua fede. Perché ci fa capire che ha radice nel suo corpo, nella sua carne. E ci fa capire come questo Dio – proprio perché è il Dio degli ebrei, e lo stesso Dio dei cristiani – non sia un’entità astratta da individuare in qualche zona delle sfere celesti, non sia un’entità concettuale, un Dio dei filosofi, ma un Dio che passa nelle vite umane, le attraversa, le chiama, le prende. E’ un Dio che si fa riconoscere nell’incontro con un altro essere umano, anche in un amore fatto di carne e di sogni, di studio e di vita condivisa. (D’altronde, in tutta la Bibbia vi sono figure che conducono altri alla conoscenza di Dio. V. in Atti l’eunuco etiope).
Ma c’è un altro fattore che conduce Etty a “disseppellire Dio”. Ed è l’irruzione della tragedia storica nella sua vita, nella vita delle persone amate, degli ebrei, dell’Europa, che fa sì che Etty senta da un lato il bisogno di cercare il senso di tutto ciò che sta accadendo; dall’altro senta il bisogno di orientare la sua vita e le sue scelte (e ci saranno scelte concrete: come quella di entrare nel Consiglio ebraico, poi quella di andare volontaria a Westebork) in modo che, nonostante le crudeli strettoie dell’invasione, della dittatura, delle deportazioni, dello sterminio, lei avrà sempre la certezza (sapendo anche che rischia la morte che poi di fatto non le sarà risparmiata) di vivere una vita liberamente scelta, in cui l’unico essere che guida i suoi passi è quel Dio che sembra tacere, e a cui lei osa invece parlare.
In Etty dunque la fede non è semplicemente appartenenza (anche se nella sua appartenenza ebraica trova radice). Dio non le viene incontro soltanto perché fa tutt’uno con la storia del suo popolo e della sua famiglia. Ma le viene incontro anche perché lei vuole guardare in faccia la storia, non vuole sottrarsi alla sofferenza, vuole continuare ad aderire alla vita. La fede non dunque come rifugio in qualcosa di protettivo e domestico, e neppure astrazione dalla concretezza del vivere. Ma, al contrario, come sprofondamento nella vita, nei suoi momenti di pienezza e di gioia così come nei momenti di buio e di silenzio.
- “Aiutare Dio”
E qual è dunque, questa fede a cui Etty approda?
Va detto che quando comincia a parlare di Dio, o quando comincia, con stupore, quasi sorpresa, a rivolgersi a un Dio che non avrebbe pensato di trovare così vicino, Etty è anche in un rapporto “espansivo” con le sue letture, con i suoi amati poeti e scrittori, con il suo desiderio di diventare scrittrice. Inutile dire che non solo non separa le letture “spirituali” da quelle “letterarie”, ma anzi, vi è un crescendo di dilatazione i interessi. Accanto a Rilke, accanto a Dostojevskji, legge Agostino, l’Evangelo di Matteo, l’ “ebreo”Paolo, come lei lo chiama. Ci sarà Buddha. Ci sarà Meister Eckhart. E più allarga lo sguardo, più la sua attenzione e il suo ascolto convergono verso quel Dio che comincia a scoprire nel suo orizzonte. La cosa che mi pare di grande interesse, è che la libertà con cui si accosta al Dio che va cercando, non diventa mai genericità. Il suo Dio può essere anche mediato da Rilke. O da Buddha. Ma non diventa un Dio rilkiano o buddhista. A me sembra di poter dire, scorrendo le “confessioni” di Etty – e mi piace usare qui questo termine “confessioni” come lo usa Maria Zambrano: la confessione è “la speranza che ciò che non si è venga alla luce” – che il Dio che le viene incontro è sempre più il Dio delle Scritture, anche se è un Dio, per così dire, arricchito, dentro di lei, da voci e risonanze che glielo rendono più vicino. E’ la Bibbia il libro che Etty finisce per leggere quasi quotidianamente. E’ un Salmo che canta quando sale sul treno per Auschwitz. Ma quello che voglio dire è che noi dobbiamo tener presenti contemporaneamente questi due elementi: da un lato la libertà estrema che non la rende mai un’ebrea “ortodossa”; dall’altro un ritrovamento della propria radice che passa attraverso l’intensificazione dell’esperienza e della vita. E d’altronde va detto che le grandi esperienze “religiose” non è detto che si connotino come tali nel momento in cui accadono. C’è un passo di Paolo De Benedetti che mi piace molto ricordare, in cui dice che “Se Mosè, o Geremia o Gesù avessero pensato che il loro messaggio potesse venire inteso come un discorso edificante da farsi in un luogo sacro, o da meditarsi in un tempo sacro, o in uno spazio interiore isolato con fatica dal resto della vita, si sarebbero meravigliati e sdegnati”[2]. Perché né per Mosè né per Gesù vi era un versante religioso della vita, ma semplicemente la vita. E la Bibbia, aggiunge, andrebbe letta non come un documento che ci sta alle spalle, ma come una Parola da interrogare per conoscere il nostro presente. A me sembra che, in definitiva, il cercare Dio, o il dialogare con Lui, di Etty Hillesum sia in fondo un tentativo di interrogarlo per conoscere la vita.
Ma qual è, a questo punto, il Dio cui Etty si rivolge?
E’ un Dio che Etty sembra trovare al fondo di se stessa. “La parte più profonda e ricca di me in cui riposo io la chiamo Dio”. Ma non credo che saremmo sulla buona via se ci lasciassimo guidare da questa definizione. Perché subito dopo Etty corregge il tiro. “Quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più profonda e essenziale di me che ascolta la parte più profonda e essenziale dell’altro. Dio a Dio”. Il Dio di Etty è un Dio dialogico. E’ un Dio che può tacere, ma non si sottrae al dialogo con la creatura. E’ un Dio di relazione, non un Dio distante e solitario. E’ un Dio col quale Etty dialoga, con il quale è in costante “colloquio”, al quale rivolge preghiere, ringraziamenti, pensieri (“Discorrerò spesso con te…” 11 maggio 1942). A lui si affida, a lui si confida. E’ il Dio della relazione Io-Tu, presente da sempre nella storia dell’ebraismo. E’ un Dio che non tradisce nella promessa, nella consolazione, nella memoria.
Anche se è un Dio che non può tutto. Tale è l’orrore che è penetrato nella storia e nei cuori umani, che nemmeno Dio può dare salvezza. Un Dio debole? Un Dio impotente? Un Dio che non salva? E’ piuttosto impressionante vedere come in questa ragazza, che di sicuro è digiuna delle grandi questioni teologiche che occupano il secolo, si arrivino a formulare pensieri che più tardi troveranno elaborazione compiuta (v. Jonas, e altri). Si pensi appunto al tema dell’impotenza di Dio. Ma non solo arriva a formulare il celebre pensiero, ripetuto più volte, “Se tu non ci puoi aiutare, saremo noi ad aiutare te”. Ma nel mettere a nudo quella “debolezza“ di Dio, Etty Hillesum compie una duplice operazione: non solo salva la responsabilità e la libertà dell’essere umano. Ma porta alla luce il Dio di tenerezza e di pietà che in tante parti del testo biblico asciuga le lacrime delle sue creature. E, forse, nel Dio che agisce sui cuori umani proprio a partire dalla sua debolezza, incontra il Dio cristiano che nella debolezza ha rivelato la sua potenza.
E questo è l’altro volto del Dio di Etty. Quello dell’”ardore elementare”, così lei chiama l’amore per il prossimo, per dire che non dipende da una predilezione psicologica o affettiva, ma è una disposizione elementare, appunto, da rintracciare la fondo della propria coscienza, come scelta definitiva e senza ritorno,in vrtù della quale si è orientati a vivere per l’altro, in funzione dell’altro. E’ un atto libero, anche qui, non una predisposizione psicologica, o l’obbedienza a un dettato morale. Ma è una scelta di essere orientati verso il volto dell’altro, invece che verso il proprio, così come la luna orienta il proprio volto alla terra. L’amore per il prossimo – che sia quello di cui “parla l’apostolo Paolo agli abitanti di Corinto”, o che sia l’incontro con il nemico, verso il quale non riesce a provare odio, o la sollecitudine verso tutti coloro per i quali può preparare un succo di pomodoro o offrire una parola di sollievo al campo di Westerbork, questo amore deriva dall’essere tutti a immagine e somiglianza di Dio, e tutti coinvolti in un’unica condizione umana che può essere di miseria, ma anche di potenziale gioia e pienezza. E’ l’amore per Dio che muove i passi di Etty incontro al prossimo o è la necessità di aiutare il prossimo che la porta a colloquiare con Dio? E’ un falso problema, credo. Sono solo due cammini che si intrecciano. Etty ha il dono di saperli guardare e comprendere in uno stesso sguardo. Ma in questa vibrazione di umanità, in questa appartenenza al mondo sta quella che abbiamo chiamato la sua “spiritualità”, o sarebbe meglio dire il suo incontro con Dio.
Rileggiamo quel pensiero di Etty cui abbiamo fatto riferimento anche prima. “L’unica cosa che possiamo salvare, di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri esseri umani. Sì, mio Dio. Sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità. Più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci e tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi” (11 luglio 1942).
Vi sono molte cose che vi si possono leggere, oltre a quelle dette prima. Quella “casa di Dio in noi”, per esempio, mi fa ricordare una storia chassidica, ricordata anche da Buber, in cui un rabbino chiede dove abita Dio. E la risposta è “Dio abita dove lo si lascia entrare”. Ecco Etty lo lascia entrare nei suoi pensieri e nel suo cuore (se l’espressione non appare troppo sentimentale): quella è la casa di Dio.
Ma anche quel bisogno di salvare Dio per salvare l’umanità, come dice più esattamente in un altro passo, ci fa comprendere come Dio e l’umanità siano per Etty, come per uomini e donne della Bibbia, due volti di una stessa realtà.
Ma proprio in questo senso a me sembra che sarebbe giusto sottrarre Etty Hillesum da alcune “attribuzioni” che le sono state rivolte, anche con qualche ragione, naturalmente, ma a mio avviso con una certa sovraesposizione, per un eccesso di “lettura”.
La prima è quella di una connotazione “mistica” del suo rapporto con Dio. La seconda è quella di una particolare vicinanza al cristianesimo, e in particolare al cttolicesimo, in virtù di alcune sue affermazioni e appassionate letture di autori cristiani e di passi evangelici. La terza è quella di un “passione della sofferenza”.
Per quanto riguarda la mistica, se con “mistica” vogliamo intendere qualcosa di preciso, e non una vaga spiritualità dai contenuti sfumati e incerti, ma una categoria che comprende alcune carattristiche della fede: e cioè l’Unità con Dio, invece del rapporto dialogico e duale; l’ineffabilità dell’esperienza di Dio; la contemplazione dell’Uno inaccessibile, di derivazione neoplatonica; direi che in Etty si riscontra esattamente l’opposto: la dialogicità, la comunicabilità, la relazione duale.
Per quanto riguarda la vicinanza al cristianesimo, credo che non si possa dire più di un “perché no?” come lei rispose a chi le faceva alcune obiezioni. Ma semplicemente nel senso di una libertà di attingimento alle fonti della sua conoscenza, e per niente al fatto nel senso di una predilezione o di una scelta di campo. Certo, la lettura di Paolo o di Matteo le hanno sicuramente reso più chiaro, più ricco, il volto di misericordia del Dio biblico. L’Hanno certamente confortata nella sua certezza che occorre “amare il nemico”. Manon credo si sia mai posto il problema di un “cristianesimo” di Etty.
Infine, è stato detto che Etty ha una “particolare predilezione per la sofferenza”. Credo che ogni pagina, ogni riga da lei scritta dimostri il suo amore per la bellezza, per la vita buona, per i piccoli (e i grandi) godimenti della vita. Se sceglie di stare “accanto” alla sofferenza e di vivere “per” la sofferenza, è precisamente per alleviarla, e perché sa, al fondo di sé, come dicono i maestri rabbinici, che “chi salva una vita salva un mondo intero”. E Etty questo mondo lo vuole salvare. Ma Proprio perché non è la sofferenza, ma la gioia che ama. Il suo pezzetto di cielo. Il cioccolato caldo. Il vestito azzurro. E l’amore, gli amici.
- “Bisognerà pure che questo sia possibile”.
Infine. Che cosa ci rimane, che cosa possiamo trattenere oggi, per domani, possibilmente, delle parole scritte da Etty, del racconto della sua vita, del suo “dialogare” con Dio? Oggi viviamo in una diversa tragicità del mondo. Qualcuno dice che non è neppure tragedia questo conflitto diffuso, queste atrocità che si dispiegano su scalaplanetaria, ma che una parte del mondo può permettersi di ignorare. Non saprei. E non saprei dire neppure quali sono i vissuti di fede che oggi abbiamo di fronte. I fondamentalismi, le indifferenze, i rapporti di potere, le spettacolarizzazioni, qualche esmpio di fede “in un mondo adulto” che però vive in disparte, e di cui difficilmente siamo a conoscenza. Proprio perché siamo un po’ smarriti, e non sappiamo bene che pensare, è importante il racconto di fede che Etty ci ha lasciato.
Perché mette in luce per noi, per lo più miscredenti, o tiepidi, o indifferenti, quali possono essere le potenzialità di un’esperienza di fede.
Intanto, ci mostra che la fede non è detto che sia appartenenza, ma acquisizione, scuola, apprendistato. Etty sa imparare perché sa ascoltare e aspettare. E sa dire di sì quando capisce che è il momento. “Una volta risposi sì a qualcuno o a qualcosa” scriveva Dag Hammarskjoeld nel suo Diario.
Poi ci mostra che la fede non è acciecamento, come putroppo abbiamo visto anche di recente. Ma responsabilità. “Ho il dovere di vivere nel modo migliore, e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro. Allora chi verrà dopo di me non dovrà più cominciare dopo di me e con tanta fatica”.
Ci mostra che la fede è libertà. Non solo di attingere a tutto ciò che incontra, non solo di spezzare le catene della prigionia (“Anche qui dentro io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà. E non c’è nessuno che mi possa veramente fare del male”), ma anche, come abbiamo visto, di capovolgere l’ordine delle cose, e di “aiutare Dio”.
Ci mostra che la fede è speranza: Sapere che “le cose ultime non potranno esserci sottratte”, e che dunque “occorre vivere per aiutare i nuovi tempi che verranno”. Dagli stessi campi dove lo sterminio è in corso Etty pensa che “dovranno iraggiarsi pensieri nuovi, nuove conoscenze” per smentire la via dell’orrore.
Ci mostra, infine, che la fede non è attenzione a sé, cura della propria anima, ma dono di sé. La vita occorre saperla perdere per poterla salvare, ripete, evangelicamente Etty. Amore per l’altro, appunto. Ma un amore di cui non le sfugge il sapore di sfida all’impossibile. Ma ciò che è stato detto almeno una volta deve pur poter essere possibile. E Etty dice.”E’ giunto il momento di mettere in pratica ‘ama i tuoi nemici’. E se noi arriveremo a dirlo, bisognerà pure che questo sia possibile”.
Vorrei che questa fosse, per ora, l’ultima parola sulla fede di Etty: la fiducia che la Parola di Dio sia efficace e non rimanga senza effetto (Isaia 55,11).
[1] V. Uomini e Profeti, giugno 1996
[2] Paolo De Benedetti, La morte di Mosè, Bompiani p.5
Olivier Messiaen
NUOVI CIELI, VECCHIA TERRA
Meditazione tenuta il 3 agosto ad Arte Sella e il 4 agosto a Pieve a Elici [cfr. APPUNTAMENTI] in occasione della esecuzione di
Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du temps, Mario Brunello al violoncello, Andrea Lucchesini al pianoforte, Marco Rizzi al violino, Gabriele Mirabassi al Clarinetto
Nuovi cieli, vecchia terra
Faceva un freddo che gelava le ossa la sera in cui Olivier Messiaen eseguì per la prima volta il suo Quartetto per la fine del tempo, al campo di concentramento di Goerlitz, in Slesia, dove era rinchiuso assieme ad altri 30.000 prigionieri. Il termometro segnava 15 gradi sotto lo zero. Il pianoforte sembrava anche lui intirizzito, con i tasti che faticavano a risalire una volta premuti. E quanto agli altri strumenti del Quartetto erano anch’essi assai precari: il violoncello di Etienne Pasquier, comprato con una colletta dei prigionieri, si dice che avesse solo tre corde; il violino di Jean Le Boulaire faceva parte della dotazione del campo, per “allietare”, talvolta, i prigionieri; il clarinetto di Henri Akoka era l’unico strumento rimasto quasi avvinghiato alle mani del suo possessore. Era il 15 gennaio 1941. Olivier Messiaen, giovane compositore di 31 anni, crea un’opera – esegue un’opera creata in quei giorni di tristezza e di angoscia – capace di andare oltre la prigionia, oltre il gelo e la fame, oltre l’umiliazione, oltre una vita contesa ogni giorno alla morte: un’opera che disegnava i suoni di un tempo nuovo, di geometrie nuove, di voli d’uccelli in spazi larghi, che sognava un mondo libero e redento, in cui il tempo feroce dell’abominio e della empietà sarebbe stato cancellato per sempre, e si sarebbe inaugurato il tempo eterno della misericordia e dell’amore, della bellezza, della sapienza, della pace. Lo avevano annunciato i profeti, quel tempo: che le cose di prima sarebbero state dimenticate, tutto sarebbe passato; lo dicevano i testi sacri che vi sarebbe stato un cielo nuovo e una terra nuova. Ma prima di allora occorre passare attraverso la distruzione e la desolazione, occorre bere fino in fondo l’insulto alla dimensione dell’umano, bisogna affondare per poter risalire. “Ho composto questo quartetto – dirà anni più tardi Olivier Messiaen – per evadere dalla neve, dalla guerra, dalla prigionia e da me stesso. Il miglior beneficio che ne ho tratto è che in mezzo a trentamila prigionieri io ero probabilmente l’unico a sentirmi libero.” Ma no, non era l’unico, se qualcuno disse, dopo quella prima esecuzione, “Questa musica ci riscatta tutti. Un riscatto sulla prigionia, la mediocrità, e soprattutto noi stessi”.
È da una immagine dell’Apocalisse che prende inizio il quartetto e la riflessione musicale sulla fine del tempo. Dal capitolo 10, i versetti 1-7.
“E vidi un altro angelo, possente, discendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo e il suo volto era come il sole e le sue gambe come colonne di fuoco. 2Nella mano teneva un piccolo libro aperto. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra, 3gridò a gran voce come leone che ruggisce. E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce. 4Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii una voce dal cielo che diceva: “Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo”.
5Allora l’angelo, che avevo visto con un piede sul mare e un piede sulla terra, alzò la destra verso il cielo 6e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare e quanto è in essi: “Non vi sarà più tempo! 7Nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, allora si compirà il mistero di Dio, come egli aveva annunciato ai suoi servi, i profeti”.
Apocalisse 10,1-7
I colori che Messiaen trasfigura nei suoni – quello sfolgorante arcobaleno sulla testa del settimo Angelo, le colonne di fuoco, il blu del mare, il verde della terra, e tutti gli altri colori dell’Apocalisse – apparivano vividi e smaglianti nei sogni di Messiaen al campo, tra le allucinazioni dovute alla fame e alla fatica. I colori diventavano suoni e i suoni si coloravano di blu e arancio, di limpida luce stellare. E il silenzio – grande solenne che segue l’apertura del settimo sigillo: “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora …” (Ap 8,1) – non tanto era un’eco dilatata degli ambigui e oscuri silenzi del campo, quanto il sogno di una quiete inesprimibile.
Ora, Messiaen era già un compositore di rilievo (era anche un appassionato collezionista dei suoni e dei canti degli uccelli). Inoltre il suo fervore cristiano lo orientava verso una dimensione spirituale ben precisa, ma amplificata e resa più viva dall’interesse per altre tradizioni, comprese quelle orientali. Ma è in ogni caso sorprendente che la “sua” lettura dell’Apocalisse avesse già ben individuato che non si tratta di un’opera che contiene “solo mostri e cataclismi”, ma anche “luci grandi e meravigliose, seguite da silenzi solenni”.
Ma per desiderare così tanto la libertà, per riuscire a immaginarla con i colori dell’arcobaleno sfolgoranti sopra la testa di un angelo, accompagnata da fragore di tuoni e di pietre, e seguita da “stelle improvvise”, forse occorre davvero essere rinchiusi nelle catene dell’oppressione. Chissà. Forse possiamo anche noi oggi provare a capire che cosa significa Apocalisse, come ha fatto Olivier Messiaen. E forse anche noi, anche se non viviamo in condizioni estreme, possiamo trarne un insegnamento per il nostro tempo.
Disvelamento del male
L’Apocalisse è un libretto di 21 capitoli, scritto verso la fine del I secolo della nostra era, da un autore che si chiama Giovanni, probabilmente all’isola di Patmos, dove si trovava in esilio a causa della sua predicazione. Il periodo è quello delle prime persecuzioni contro ebrei e cristiani. Il tempio è stato distrutto, serpeggia l’insicurezza, l’identità vacilla. Tutti quei simboli – i sigilli, le trombe, le coppe, i cavalieri, le bestie, i numeri – a noi oggi non dicono nulla. Ma erano perfettamente chiari alle comunità a cui venivano rivolti. Oggi fatichiamo a dare senso a “una porta aperta nel cielo” (4,1), ad animali dotati di ali e pieni di occhi, sette sigilli che chiudono un piccolo libro, un Agnello sgozzato, con sette corna e sette occhi … Ma, appunto, il significato della parola “Apocalisse” non è “catastrofe”, “disastro”, ma è invece spiegazione, “svelamento”. Togliere il velo. Capire. Noi facciamo fatica a comprendere quelle figure, quei simboli, perché nella modernità si è interrotta quella catena di connessioni simboliche che fino a un certo punto erano rimaste chiare, evidenti.
Eppure, a leggere con attenzione, non è difficile tradurre anche per noi in occasione di disvelamento le bestie e gli agnelli, gli angeli e i mostri, i numeri e i libri, il cielo nuovo e la terra nuova. Possiamo provare a far parlare quel libro anche oggi. Anche oggi possiamo provare a scorgervi qualcosa che ci riguarda.
In primo luogo c’è una “rassegna” del male che attraversa il mondo. Si dirà che non c’è bisogno dell’Apocalisse per considerare il mondo come magma confuso in cui regnano sopraffazione e violenza, distruzione e indifferenza. Basta guardare ai boschi in fiamme, a quegli azzurri sudari che sono diventati i nostri mari, agli intrighi dei potenti, alle scuole dell’odio, all’ingiustizia che dilaga, alla miseria mai sconfitta. Ma l’Apocalisse non si limita a “esibire” uno scenario di empietà e di sventure. Ci mostra – se abbiamo occhi per vedere e orecchie per intendere – attraverso quali meccanismi il male ci sembra bene, ci seduce, ci avvince, ci insidia e ci adesca. In definitiva, in che modo siamo complici del male anche quando non lo facciamo o crediamo di non farlo.
Le due “bestie”, ad esempio. Quella che sale dal mare e quella che sale dalla terra. Dietro “la grande bestia” che sale dal mare (13,1) non è, in fondo, così difficile riconoscere qualcosa di familiare: è il potere di tutti i tempi e di tutti i luoghi, dietro a cui va la “terra intera, presa da ammirazione” (13,3). E “l’adorarono tutti gli abitanti della terra” (13,8) … “E gli uomini adorarono il drago perché aveva dato il potere alla bestia e adorarono la bestia dicendo: chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa?” (13,4). Non riconosciamo qui i meccanismi di seduzione del potere politico, del denaro, della superbia, dell’arroganza, del dominio sugli altri? Non riusciamo a riconoscerli intorno a noi e forse anche in noi? Anche se non ce ne accorgiamo, anche noi andiamo dietro alla grande potenza di seduzione che hanno i modelli di egemonia, i beni visibili, le macchine del comando.
E poi c’è la “seconda bestia”: quella che sale “dalla terra” (13,11), quella che ha le corna “simili a quelle di un agnello”, ma parla con “parole di drago” (13,11). Non dovrebbe essere così difficile identificarvi le maschere dei seduttori di ogni tempo. Per mezzo dei suoi prodigi, delle sue esibizioni, del suo apparato sacrale “sedusse gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua” (13,14) alla prima bestia! Non riconosciamo qui il simulacro di tutti i poteri religiosi, ideologici, totalizzanti e totalitari, che sottomettono le libertà degli individui alla loro visione, rendendoli schiavi della bestia del potere? E arrivano anche a far parlare le statue (13,15) pur di abbagliare e corrompere? Ecco, qui, il grande inganno dell’idolatria, in agguato dietro ogni forma di autorità, dietro ogni forma egemonica, dietro chiunque si rinchiuda in un palazzo: civile, religioso, culturale o altro. Ci siamo illusi, per un po’, di vivere nel disincanto. Ma ora ci accorgiamo invece di vivere gonfi di incantamenti, pervasi da sortilegi dai quali ci lasciamo affascinare e corrompere.
Così, dietro il nome della “grande prostituta” (17,1), “Babilonia la grande” (17,5), “ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri” (17,6), possiamo leggere i nomi delle nostre città, che si nutrono di “schiavi e vite umane” (18,14), che non tengono in nessun conto “tutti coloro che furono uccisi sulla terra” (18,23). “Perché tutti tuoi mercanti erano i grandi della terra, perché tutte le nazioni dalle tue malie furono sedotte” (18,24). Non c’è bisogno di dare dei nomi geografici a queste città: potrebbe essere New York o Pechino, la Libia oppure la Corea, un villaggio del Nepal oppure una delle nostre città… Si tratta di tutti i luoghi in cui il potere si nasconde dietro la maschera del diritto e della giustizia, dietro le vesti dell’agnello e dietro l’autorità di un libro, di un codice, e tace menzogne, e occulta soprusi.
Nello svelare i meccanismi del potere, le seduzioni che ci catturano, le nostre connivenze, le nostre omertà, l’Apocalisse ci inchioda anche alle nostre responsabilità. E ci chiede se non è il tempo di spezzare la catena delle complicità. Noi ci chiediamo ancora come è stato possibile che tanti bravi cittadini tedeschi abbassassero lo sguardo e chiudessero il naso di fronte al fumo dei camini che si levava a fianco delle loro case. Quelli che verranno dopo di noi si chiederanno come abbiamo fatto a fare il bagno nello stesso mare in cui migliaia di profughi annegano, o come abbiamo fatto a consumare tutta l’acqua della terra. Può darsi che questo sia solo moralismo. L’urgenza che preme dentro i capitoli dell’Apocalisse credo riguardi anche noi.
Il tempo nuovo
L’urgenza. Appunto. L’Angelo “con un piede sul mare e uno sulla terra” annuncia che “non vi sarà più tempo”. Come dobbiamo intendere questo annuncio? Come una speranza o come una minaccia? In entrambi i sensi, forse. Il primo senso è certamente quello che “il tempo si è fatto breve” – non ci sarà più “dilazione”, traducono alcuni o non vi sarà più “indugio” – è finita la misura di tempo che ci è stata concessa. La grande ora della giustizia è data come imminente: “In un’ora sola è andata dispersa la grande ricchezza di Babilonia” (18,17). Il giudizio è alle porte. “Il tempo è vicino”. “Presto” è atteso il ritorno del Signore” …
In un’ora sola possono essere distrutte le nostre città, lo sappiamo. Ma … strano. Paradossalmente, noi che viviamo in un tempo veloce, in una accelerazione dei ritmi vitali, sembriamo non avvertire nessuna urgenza. Sembriamo vivere in un eterno presente, e nello stesso tempo siamo incapaci di attesa, in un mondo che non contempla più futuro.
Ma c’è un secondo significato, forse più nascosto, di questo annuncio della fine del tempo: ed è che la fine del tempo non è la fine di tutto. Quando Messiaen dice che partendo dal versetto dell’Apocalisse ha voluto “motivare il suo desiderio della fine del tempo”, non intende, credo, un dissolvimento nel nulla. Ma lo spalancarsi di un tempo altro, un tempo non più orizzontale, ma verticale. Che apra dimensioni nuove, che trasfiguri i tempi delle nostre vite. Che percorra tutti i suoni delle grida, dei gemiti, degli stridori del mondo; ma apra alle lontane sonorità delle stelle. Lontane, ma capaci di lasciar cadere su di noi bagliori di consolazione. Lo sa chiunque contempli in silenzio il cielo stellato che ci sovrasta.
Chi, come Olivier Messiaen, desidera con tutto se stesso uscire dal gelo dell’infamia e spezzare le catene della storia, sogna l’epifania di nuovi cieli e di una nuova terra, come avevano annunciato i profeti: “In quel giorno il Signore eliminerà la morte per sempre, asciugherà le lacrime dai loro occhi, cancellerà l’ignominia del suo popolo …” (Isaia 25,8). E come ripete l’Apocalisse “Detergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4).
Questo tempo nuovo – finito il tempo storico – è il tempo dell’eterno, a cui è dedicato lo splendido assolo per violoncello del quinto movimento. È questo, credo, il tempo a cui pensa Olivier Messiaen: il tempo in cui “maestosamente la melodia si appiana, in una sorta di lontananza tenera e somma”.
Ma noi?
Se abbiamo smesso di leggere l’Apocalisse e gli altri testi sacri, è anche perché abbiamo perso ogni fiducia in un tempo nuovo. Non crediamo più che la giustizia possa regnare su questa vecchia terra e che nuovi cieli possano dischiuderci un tempo diverso da quello che conosciamo.
Viviamo senza prospettiva, con lo sguardo fisso al presente, non immaginiamo futuro, se non quello più stancamente prevedibile, e soprattutto siamo incapaci di immaginare “novità” radicale. Davanti a noi non si dispiega nessuno scenario di salvezza. Non riusciamo a vedere “la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, come una sposa adorna per il suo sposo”. È anche possibile, anzi probabile, che mai la vedremo, mai vedremo “il suo splendore, simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino” (21,11). È possibile, anzi è probabile, che oggi luce e tenebre compongano un difficile mosaico, e che nello scorrere del tempo, per paradosso, prevalga l’immobilità.
E tuttavia ritengo legittimo chiedersi se sia possibile una risposta diversa dalla rassegnazione. È possibile introdurre un tempo che non sia quello della assenza radicale di prospettiva? Davvero sentiamo così distante da noi quella visione del tempo breve che domina le pagine dell’Apocalisse? “Qui ci vuole una mente che abbia sapienza” (17,9) dice il testo.
L’opera di Olivier Messiaen mi sembra portatrice di questa grande sapienza. Il tempo vissuto in quel freddo e in quella disumanità era compiuto perché la storia era giunta al culmine dell’orrore e della desolazione. Ma ecco che Messiaen ci mostra che in ogni situazione, anche la più estrema, è possibile creare un’altra modalità del tempo. Un tempo della libertà durante la prigionia; un tempo dell’amore mentre perdura l’odio; un tempo della possibilità dell’umano là dove sembra vincere l’inumano. Un tempo nuovo, che spezzi la continuità del tempo ordinario.
Olivier Messiaen è colpito da questa idea del tempo che finisce. Non si esprime in termini teologici. “Non ho voluto fare un commento all’Apocalisse, ma giustificare il mio desiderio di cessazione del tempo”. Proprio in questo coglie in profondità la possibilità di un altro tempo: quello che sconfigge il tempo storico, e apre un tempo dell’inizio, il tempo della libertà, dello spirito, della luce, del desiderio. Sappiamo che la storia umana non cambierà mai radicalmente, non vi sarà una “terra senza il male”. Abiteremo sempre nella nostra “vecchia terra”. E tuttavia in questa vecchia terra, sulla sua dura crosta, sempre, ovunque sarà possibile far vibrare qualche squarcio di nuovi cieli che possano dare luce e colore al mondo (“Sono un musicista della luce e della gioia” diceva di sé Messiaen), che ne possano custodire la bellezza, creare conoscenza, aver cura del vivente. Forse sono questi i nuovi cieli che ci aprono all’eterno, che ci fanno assaporare qualcosa che assomiglia all’immortalità. Il Quatuor si chiude con una “Lode all’immortalità di Gesù”: un lungo assolo del violino, accompagnato dal pianoforte, che si conclude in una sorta di sfinimento, verso un silenzio stellare, in cui tutto è redento, tutto è incorruttibile, tutto è amore, tutto è splendore, tutto è movimento ascensionale del suono. Perché l’immortalità? In che modo ci riguarda?
Che ce ne faremmo, noi, dell’immortalità biologica se essa non contenesse un riflesso della lucentezza delle stelle, del bene, della pace? Del volo degli uccelli, dei colori degli alberi, della musica che accompagna i suoni degli universi, delle parole contenute nelle scritture di tutti i tempi, della bellezza dei cuori umani che, talvolta, riverbera la bellezza dei mondi… È qui, forse, che il tempo breve si salda col tempo dell’eterno: nell’urgenza di desiderare nuovi cieli che possano dare qualche bagliore di luce a questa vecchia terra.
Otto sono i movimenti del Quartetto per la fine del tempo. Perché otto? “Perché sette sono i giorni della creazione. Il settimo è il giorno dello shabbat divino, che si prolunga nell’eternità e diventa l’otto della luce indefettibile, della pace inalterabile”. L’ottavo movimento, come l’ottavo giorno, segna l’inizio dell’infinito, del tempo nuovo della nostra vita.
Gabriella Caramore
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Gabriella Caramore – Aliberti editore – 2010
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