CREDERE OGGI .
Rivista bimestrale di divulgazione teologica”
Direttore di testata: Simone Morandini
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N° 5, Settembre-Ottobre 2023. “Dire Dio oggi”
“La parola ‘Dio’ nelle scritture dei poeti”
Un magma rovente
È dai primi gesti delle specie umane sulla terra, dalle loro prime forme rituali, dalle prime modalità di raggruppamento comunitario, che i sapiens si sono interrogati su una dimensione – consolatoria e terrifica al tempo stesso – che di volta in volta hanno nominato come “sacro”, “divinità”, “numinoso”, riempiendo di dei e dee, eroi e eroine, figure sovrumane o spiriti folletti la mappa del loro pensoso indagare il mondo. Le antiche scritture, che ancora non dividevano in maniera didascalica, come poi è accaduto inesorabilmente nei secoli, forma poetica e forma in prosa, hanno ospitato, tutte, una fantasmagoria di figure per indicare qualcosa che sovrasta l’umano, che va oltre lo scorrere in superficie dell’esistenza, e si immerge nelle sue acque scure e profonde. …
La parola “Dio” nelle scritture dei poeti
Per “Credere Oggi”
Mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?
Esodo 3,13
Qualcosa c’è, e ci trascende
Euripide
Un magma rovente
È dai primi gesti delle specie umane sulla terra, dalle loro prime forme rituali, dalle prime modalità di raggruppamento comunitario, che i sapiens si sono interrogati su una dimensione – consolatoria e terrifica al tempo stesso – che di volta in volta hanno nominato come “sacro”, “divinità”, “numinoso”, riempiendo di dei e dee, eroi e eroine, figure sovrumane o spiriti folletti la mappa del loro pensoso indagare il mondo. Le antiche scritture, che ancora non dividevano in maniera didascalica, come poi è accaduto inesorabilmente nei secoli, forma poetica e forma in prosa, hanno ospitato, tutte, una fantasmagoria di figure per indicare qualcosa che sovrasta l’umano, che va oltre lo scorrere in superficie dell’esistenza, e si immerge nelle sue acque scure e profonde. Qualcosa che gli umani non arrivano a comprendere, ma che in ogni caso elaborano, con imperfetto linguaggio, di volta in volta riformulato – e di cultura in cultura reinventato, arricchito, approfondito – nel desiderio di scrutare le voragini del cuore umano e quelle delle stelle.
Così sono nate le grandi narrazioni, le grandi epopee mesopotamiche, quelle greche, quelle bibliche – per restare solo nelle civiltà che hanno plasmato quello che ancora, stancamente, chiamiamo “Occidente” – che hanno accolto le più diverse figure del divino. Le stratificate trame della storia hanno fatto sì che, in Occidente, prevalesse la religione cristiana, con al centro la figura di un uomo “salvatore”, Gesù di Nazaret, nato a sua volta dentro le trame di una narrazione che vede nell’alleanza tra un “Dio” più grande di ogni altro dio, e un popolo più misero di ogni altro popolo, la possibilità di una redenzione per ogni umano sulla terra e di un ordito di senso che dia ragione del disordine del mondo. Questo “Dio”, che in realtà nel testo biblico non ha nome, non ha volto, ma è solo “parola”, cioè linguaggio umano che cerca di articolare ragionamenti, di formulare responsi alle fatiche e agli enigmi del vivere, è stato oggetto di infinite esplorazioni da parte del pensiero filosofico, di tentativi di addomesticamento da parte dei poteri politici, di speranze di salvarne un nucleo plausibile da parte della riflessione teologica. Con un travaglio sempre più grande, man mano che la complessità del processo storico ne rendeva sempre più problematica la definizione. Si può dire però, mi sembra, che la poesia, che è anche e soprattutto “pensiero” – il “pensiero poetante” come lo chiamava Heidegger –, abbia salvaguardato la dignità del nome “Dio”, proprio restituendolo alla sua fuggevolezza, e alla sua libertà.
Questo non accade solo ora, nella nostra contemporaneità sfuggente e dissacrante. Ma forse si può dire che l’epoca contemporanea, precipitata nel caos della pluralità, ma anche svincolatasi dagli steccati opprimenti delle discipline e dei concetti, può avere un accesso più libero, più coraggioso, più inventivo a quel magma rovente e non codificabile che è la parola “Dio”.
Rianimare le Scritture
Un poeta come Jorge Luis Borges, ad esempio, potrebbe sembrare irriverente nei confronti dei canoni religiosi. Al limite della blasfemia e del dileggio. Borges è il poeta/scrittore che nel racconto Il Vangelo secondo Marco tende fino a un estremo tragico e cruento le conseguenze di un ascolto della Parola succube dell’ignoranza e della superstizione. O nel racconto Tre versioni di Giuda si spinge fino al paradosso di identificare in Giuda il Dio incarnato. Troppo banale pensare che Dio si incarni in un “giusto”. “Se Dio si fece uomo, dovette scegliere un destino infimo: fu Giuda”. Ma in questo modo assume sul serio, fino in fondo, il compito dell’esegeta delle Scritture, che è quello di portare alla luce e di sviscerare fino in fondo i dubbi e le domande del lettore, lasciando spazio alla libertà di interpretare. Come nel poemetto Frammenti di un Vangelo apocrifo, dove le celebri – e inquietanti – Beatitudini iniziano con un capovolgimento sconcertante: “Sventurato il povero di spirito, perché sotto terra sarà quello che è ora sulla terra …”. O come nel breve testo poetico “Una preghiera”, dove a una stanca ripetizione del Padre Nostro sostituisce una preghiera “che sia personale, non ereditata”. Non è questo, in fondo quel “dovere di intelligenza” che il teologo Michel De Certeau rivendica come una delle forme della libertà che Dio esige dalle sue creature?
È lo stesso desiderio di libertà e di verità che anima Fernando Pessoa, il quale scrive:
“Stai attento, idolatra esclusivo di Cristo, che la vita
È molteplice e i giorni differenti gli uni dagli altri,
E solo essendo molteplici come loro
Potremmo possedere la verità e stare soli”.
Qui si affaccia l’esigenza non solo della libertà che deve accompagnare l’esperienza di fede. Ma anche la presa di coscienza che di ogni cosa si può fare idolatria, anche dello stesso nome di Dio o di Gesù. Aggrapparsi a un solo nome, pensando di possederne la chiave, tradisce la grandezza che quello stesso nome vorrebbe suggerire, la umilia, la rimpicciolisce, ne fa possesso.
Lo stesso desiderio di purificare la parola “Dio” ispira un poeta pastore e teologo come Kurt Marti, che rielaborando pensieri di Martin Buber ridisegna la “passione della parola Dio” mostrandone l’agonia senza fine: “Sanguina da ogni ferita / viene violentata ancora e ancora / è tradita calpestata frantumata disintegrata / …è forse già morta o non ancora …”.
Il movente racchiuso nel nucleo profondo dei ersi di molti poeti è quello, mi sembra, di non abbandonare la parola “Dio” a una deriva implicita nelle logiche e nei linguaggi della modernità. Ma di salvarne almeno un palpito remoto, un antico sussulto: quello che aveva acceso le speranze di popoli, di uomini e donne interroganti i segreti degli astri e gli abissi dei cuori. Per questo anche nella modernità, travolta dalla disillusione, resa amara dalla constatazione della durezza dei cuori e dell’impotenza di ogni pensiero di salvezza, rimane viva, appena come un bagliore sotto la brace, la forza dell’interrogare, il coraggio di dubitare, la disperazione di non poter rinunciare alla speranza. Per questo, nei versi dei poeti, restano vive le preghiere.
Preghiere senza risposta
Scrittore e poeta molto fecondo, Pär Lagerkvist, premio Nobel 1951, l’uomo che si definiva un “ospite della realtà”, non desiste, soprattutto negli ultimi anni, da un dialogo con il Dio in cui non crede. “Chi sei tu, che riempi il mio cuore con la tua assenza?” Qui dice una nostalgia. E la convinzione che rifiutare di credere non salva dal desiderio di affidarsi, di comprendere, di trovare una strada. “Se credi in dio, e nessun dio esiste, / allora la tua fede è un prodigio ancor più grande. / Allora è proprio qualcosa di incomprensibilmente grande. // Perché un essere sta al fondo delle tenebre a invocare / qualcosa che non esiste? Perché accade? / Non c’è nessuno che ascolti chi invoca nelle tenebre. / Ma perché c’è il grido?”
Questa percezione dolorosa quasi fisica, dell’assenza di Dio non si rassegna all’ateismo. Piuttosto, suscita una forma di protesta, di rivendicazione, di chiamata in causa. È una invocazione orientata verso un silenzio, ma che prepotentemente reclama una attenzione al vivente, fragilissimo nel dolore e nell’impotenza.
Una analoga forma di preghiera la ritroviamo in Christine Lavant, l’oscura poetessa di una Carinzia miseranda e retrograda, che proprio nel generare versi, come da un ventre gravido di senso, ha saputo rinvenire un riscatto dal suo destino di povertà e malattia. Ma è riuscita anche ad estrarre dall’impasto della lingua una creatura poetica che tiene insieme la fangosa realtà del vivente e il desiderio di una verità più grande e sconosciuta. A differenza di quello che pensava un suo grande estimatore, lo scrittore Ernst Bernhard, la sua non è una poesia indifferente alla questione del divino. L’invocazione, la derisione, l’ingiuria nei confronti di un Dio muto e insensibile alle grida degli umani non è affatto segno di disinteresse. Piuttosto, di una consapevolezza maturata lentamente, ma tenacemente, del fatto che né il Dio delle religioni, né il Dio delle tradizioni contadine, e neppure il Dio delle dottrine sanno dare risposta alle domande sempre più pressanti dell’umano. “Ascolta! È la ciotola vuota del mendicante, / metà ancora d’argilla, ma metà già di pietra, / che ad ogni banchetto scandisce per te / i canti della fame tra pane e vino”. Ma se questa ciotola non sarà colmata, e le promesse non saranno mantenute, “sarà il tuo cuore allora a mutarsi / nel cavo della mano che costringerà te a mendicare”. Il Dio che non risponde diventerà un Dio povero, più povero della sua creatura. E tuttavia Lavant sembra talvolta oppressa dalla sua stessa protesta. E in quell’ignota realtà che la sovrasta sembra comunque voler cercare quiete, e riposo, e fiducia anche nell’assenza: “Dovrai tenermi / nella rete della tua volontà. / Non voglio più uscire nel mondo / dove il sole sorge e cala senza senso / e febbrilmente la luna si riduce in quarti. / Qui dentro non c’è notte né giorno, / qui manca la tentazione delle stelle / di risollevarsi da un dolore antico / per dover precipitare in quello nuovo. / Nella tua rete la debolezza è buona …”. Riposo alla stanchezza di vivere. Questo è quanto può ambire una fede che ha abdicato ad attese miracolistiche di salvezza.
Più dura, più tagliente, più spietata la replica di Paul Celan al Dio che tace, al Dio che osserva – noncurante o impotente, poco cambia – lo scempio di dignità e di vite umane perpetrato nella civile Europa alla metà del secolo passato. Di fronte a una trascendenza imperturbabile, Paul Celan reinventa l’incarnazione del divino: non più in un uomo “salvatore”, ma in una prossimità quasi carnale ai corpi degli umiliati nella storia: “Noi siamo vicini, Signore, /vicini, afferrabili. / Afferrati di già, Signore, / gli uni agli altri abbrancati, come fosse / il corpo di ciascuno di noi, / Signore, il tuo corpo”. Ma più distruttivo ancora, il “Salmo” composto da Celan, quasi un controcanto al racconto di Genesi. Nessuno ci ha creati. Nessuno ci accompagna. Nessuno ci attende. “Nessuno ci impasta di nuovo, da terra e fango, / nessuno insuffla la vita nella nostra polvere. / Nessuno. / Che tu sia lodato, Nessuno. / … / Noi un Nulla fummo, siamo, / resteremo fiorendo: / la rosa del Nulla, / la rosa di Nessuno …”. Nonostante la durezza e la forza della negazione, tuttavia il Dio a cui si rivolgono queste preghiere è pur sempre il Dio delle Scritture: un Dio che non ha nome o che ha infiniti nomi nei quali non si lascia rinchiudere. È al patrimonio vasto e contraddittorio delle Scritture che continua ad attingere la poesia di gran parte del Novecento, delusa ma in fondo non arresa, alla ricerca di un’altra modalità di pensare quel Dio a cui aveva posto forse le domande sbagliate, o in cui aveva riposto aspettative troppo ingenuamente esigenti. E d’altronde nelle Scritture stesse il dialogo con Dio non è un catechismo fatto di domande e risposte. Piuttosto, un espediente per una interrogazione dell’umano relativa al suo destino su questa terra, per una messa a fuoco dei luoghi oscuri delle coscienze, per una perlustrazione delle possibili mappe percorribili dalle comunità dei viventi per una vita di pace e non di guerra, di reciproca dignità e non di vicendevole lacerazione. Anche i poeti più dichiaratamente religiosi, peraltro, esprimono dubbio, titubanza, smarrimento anche nella fede. Per tutti, un poeta come Mario Luzi descrive così la stanchezza provata nel rivolgersi a un Dio che non risponde e che sostanzialmente è eco dell’umano: “Sei tanto lontano / da non poterti raggiungere / o senza avvedermene/ ti ho oltrepassato / uscito dalla parabola tu / o io dell’inseguimento? …/ equiparati in tutto / da reciproco annullamento, / in tutto, in tutto, compiutissimamente?”.
“Giù, nell’incerto”
C’è però un altro filone nelle scritture poetiche di autori che hanno introiettato non solo l’assenza di una risposta di Dio alla coscienza inquieta della modernità, ma anche che sembrano aver compreso che l’alternativa all’incertezza e alla delusione non può che essere radicale. Già Hölderlin – alla fine del Settecento – vede con lucidità la solitudine della condizione umana, non più accompagnata dallo sguardo dei “Celesti”, confinati “lassù”, in uno splendore eterno e silenzioso. “Ogni legame con l’umano è reciso: Ma a noi non è dato / In nessun luogo posare, / Vacillano, cadono / Dolenti gli uomini, / Scagliati da una / Ora nell’altra, / Come acqua di roccia / In roccia, alla cieca, / Per anni, giù, nell’incerto”. Questo torrente carsico della solitudine dell’umano, che si affatica nella sua difficile libertà, affianca, fino alla contemporaneità, ogni altra considerazione del divino, parallela alle nuove sconcertanti scoperte della scienza e alla crescente complessità della condizione umana. È un mondo senza fondamento, quello che Hölderlin scopre, e un mondo che non sarà redento.
Meno di un secolo più tardi, nel puritano Massachusetts, Emily Dickinson introduce una geometria del fare poesia totalmente nuova, dove si insinua anche – di una inedita originalità – un rapporto assolutamente libero con l’idea di Dio, del cielo, dell’eterno. Nulla rimane più al suo posto, la vita cerca libertà, bellezza, amore, si confronta spietatamente con la morte, ma in una lingua nuova, piena di ellissi, aforismi, significati indecifrabili, in una tensione a rinominare non tanto le “cose”, quanto le “relazioni” che intessono la trama dell’umano. Inevitabile che anche Dio venga sottratto al rigor mortis delle consuetudini e delle teologie. “Era tardi per l’uomo, Ma ancor presto per Dio, / Il creato impotente ad aiutarci, / Ma la preghiera ci restava al fianco. / Com’è perfetto il cielo / Quando non si può avere questa terra: Come appare ospitale allora il volto / Del nostro antico vicino, di Dio! “
Ancora un secolo dopo, nel cuore del Novecento, un poeta italiano, Giorgio Caproni, con un’ironia apparentemente semplice, quasi irritante tanto è diretta, ma in realtà rivelatrice, smonta gli ultimi sotterfugi con i quali si vuole far sopravvivere a tutti i costi il Dio d’Occidente. In molte delle sue liriche, non solo un capovolgimento definitivo. Ma uno smascheramento delle finzioni in cui molti “credono di credere”: “Proteggete il nostro / protettore. Salvate / il salvatore morente. / Così predicava il Pastore / nel gelo della chiesa vuota, al lucore / dell’ultima bugia rimasta / accesa sull’altar maggiore”. In cui “bugia” è certo la fiammella dell’ultima candela che arde al posto dei cuori e delle parole; ma è anche l’ultima menzogna a cadere sotto i colpi della disillusione e “all’apparir del vero”. È così che la poesia mostra tutto il suo cuore filosofico. La parola poetica, così precisa, pregnante, ma anche tanto più ricca di significati molteplici, di colori che sfumano l’uno nell’altro, non tace l’esigenza di domandare, ma non si illude di catturare verità. In molti sono arrivati ad aggirare la “questione Dio”. Ma senza rinunciare alla tensione alla conoscenza e alla ricerca di buona umanità: che sono poi i due grandi fiumi dentro i quali le religioni si sono incamminate, ma sempre aggiornando i loro passi.
Così, in un tempo come il nostro, mi suonano con un’eco di realtà profonda pensieri poetici come questo, di Francesco Scarabicchi:
“Vigila, se puoi, sulla mia assenza. / Ovunque, dopo tanto, porto il passo / dello straniero senza patria e tetto. / Da questo luogo che non ha ritorno / ora so che azzurro è la distanza / che separa ogni vivere dal niente. / Salva quest’ora vaga del presente, / lo sguardo del pensare, il suo respiro, / il battito d’abisso e paradiso”.
Gabriella Caramore