Testo
Torino Spiritualità 29 settembre 2018
Teatro Gobetti. Ore 10
Guai a me se tacessi. Storia di Endre Ady, un poeta contro
di Gabriella Caramore
con Ivano Battiston alla fisarmonica
BLOCCO 1
Sullo schermo foto di Ady.
Caramore legge “Siamo in tre sulla grande pianura” 123
“In tre sulla pianura” p. 123
Siamo solo noi tre sulla grande pianura:
Dio, io, e una maledizione contadina.
Sì, lo so, noi tutti dovremo morire.
Ma io, lancio un forte grido spietato.
Io, io solo, non temo, non tremo.
Il mio guscio di pelle è di Satana ormai.
Eppure preservo, conservo la grande pianura, e il suo Dio,
e, assieme, quella maledizione contadina.
Qui tutto ormai, tutto – è sterile, vano.
D’autunno, primavera, d’inverno,
e nel sonno d’estate. Non ci sarà miracolo
a sventare la sorte. E tuttavia noi tre,
qui restiamo e qui resistiamo.
Ivano Battiston: primo ascolto
Béla Bartók: Jocul cu bățu (La danza con il bastone) da Danze popolari rumene
https://www.youtube.com/watch?v=vo5mb50qXQQ
BLOCCO 2
Foto a sinistra fissa. Foto a destra che si alternano man mano.
Caramore racconta:
Dio, io, e una maledizione contadina: questi, si potrebbe dire, i tre grandi filoni della poesia di Endre Ady. I tre grandi protagonisti. La sua terra, il suo paese, l’Ungheria, che forse come ogni paese si porta appresso la propria maledizione. Dio, che aveva imparato a conoscere sulla Bibbia della sua famiglia calvinista, senza mai diventare un uomo di fede piena, ma uomo di dubbio, in lotta con i valori correnti e con sé stesso. E, appunto, “io”. Quel sé stesso, agitato, rissoso, visionario attraverso il quale cercare di capire il significato della condizione umana.
Dunque ecco qui Endre Ady. (Ady Endre …) Questo poeta “contro” come lo ho voluto chiamare: contro un Dio convenzionale, contro una patria troppo infelice, e contro il suo destino che lo aveva fatto nascere nel piccolo villaggio di E.
[FOTO 1 Casa natale]
Érmindszent, appunto: un villaggio insignificante, sperduto, dove non c’era neanche l’ufficio postale, dove non passava neppure il treno… Siamo nel 1877, è il 22 novembre quando nasce. Érmindszent si trovava, allora, nell’Ungheria orientale (oggi Romania), quella della puszta, delle lunghe distese di campagna pianeggiante, di terra arida, gialla, secca, con quei pozzi (che oggi si mantengono solo per i turisti) fatti di due pali di legno biforcuti, e un altro in mezzo, per tirare su l’acqua. Ma è chiaro da subito che Endre Ady non può restare chiuso lì dento. Suo padre, erede di una piccola nobiltà ormai decaduta, sempre alle prese con difficoltà economiche, lo avrebbe voluto laureato in legge, ma sarebbe finito a fare il funzionario amministrativo in quella triste campagna. Ma non era per lui questo destino. Si ribella a quel villaggio. Fugge via. Eppure, quel luogo natale che tanto disprezza, lo attira sempre come un rifugio, come la culla a cui sempre tornare: p.133
Ivano Battiston: intermezzo (“Ropulj, pava, ropulj” o altro)
“Come pietra lanciata nell’aria, che sempre a terra ricade,
ancora, di nuovo, mio piccolo paese, mia casa,
a te torna il tuo figlio.
Visita, una a una, le torri lontane.
Su quella polvere su cui è nato,
si estenua, si accascia, in vertigine e malinconia.
Da quei desideri magiari, ora ardenti,
ora quasi dormienti, vorrebbe fuggire,
ma non riesce, non può.
Mio paese, io sono tuo, nel mio grande furore,
nelle grandi infedeltà, nelle pene d’amore,
e triste è la mia magiarità.
Come pietra lanciata nell’aria, mesta, involontaria,
piccolo mio paese, ecco così somiglia, mirabilmente,
il mio volto al tuo.
Ahimè, non bastano i propositi e la volontà.
Cento volte lanciato … e per sempre,
sempre ricado là”.
Era la madre che lo accoglieva nella casa.
[Foto 2, Endre con la madre]
Una donna semplice, buona, sempre pronta a giustificare quel suo figlio irriducibile e infelice, a capirlo, a sostenerlo. Era figlia di un pastore della chiesa riformata, finito praticamente alcolista. Lei però gli aveva trasmesso, attraverso quel suo amore incondizionato, soprattutto una forza dei sentimenti; oltre, forse, alle parole della fede che gli insegnava quando era bambino, e alle storie delle antiche glorie magiare che si raccontavano in famiglia. Col padre, poi, si recava al tempio, dove cantava i Salmi con la comunità, quei “salmi” che ricomporrà poi nelle sue poesie, ma “spezzati”, stravolti, scomposti. E comunque “Dio” è la prima figura che si erge sulla grande pianura.
La seconda è lui stesso, “io”.
Quell’io lo affascina come un mistero: vuole guardare dentro quell’oscuro abisso che è la sua anima, vuole conoscersi, scrutarsi. E forse non gli piace tanto quello che vede.
“Sono parente della morte,
amo l’amore che muore,
amo baciare
chi se ne va.
Amo le rose malate,
donne sfiorite, bramose,
nebbie d’autunno,
amare, radiose.
…………………….
Amo la stanca rinuncia …
………………
Amo i delusi, i mutilati,
e quelli che si sono fermati,
amo chi è senza fede, chi è turbato,
amo questo mondo malato …
………………………………”
Ma questo mondo malato lo vuole conoscere, lo vuole raccontare. E non subito con la poesia.
[Foto 3. In redazione, con i colleghi]
Ma con una presa più diretta sulla realtà. Lasciati gli studi a metà, comincia a frequentare le città più grandi: Nagyvárad, la città industriale, internazionale, poi Budapest, la capitale. Comincia a collaborare a diversi giornali, entra in contatto con gli intellettuali più vivaci del paese. Quello che vuole è raccontare il mondo, ma seguendo la sua natura febbrile, eccitata: scrivere, ma insieme vivere, assecondando il bere, il fumo, inseguendo donne facili, accostabili. È così che sarà contagiato, da una quasi sconosciuta, che gli trasmetterà la sifilide di cui poi morirà, a poco più di quarant’anni.
Ed è così che comincia a penetrare e a dolersi di quel “mondo malato”: il terzo protagonista della sua poesia: la “maledizione contadina”, assieme a “Dio”, e assieme a “io”. La maledizione che sembra schiacciare, come un’ombra pesante, il suo paese: un paese che periodicamente ha conosciuto l’oppressione di popoli più forti, prima la dominazione ottomana tra cinque e seicento, poi quella asburgica, e poi le umiliazioni, le ingiustizie sociali. Tutte cose che inaspriscono gli animi, rendono meschini, avidi, avari, e anche cattivi. Vede un velo nero di infelicità steso sul paese. E anche a questo si ribella. Si ribella a vedere il destino di un popolo che, pur avendo conosciuto alcuni secoli fieri, non riesce a riscattarsi da una miseria di fondo. È lì, in quegli anni a cavallo tra due secoli, che Ady fiuta, profeticamente, il futuro che si addensa come una nube minacciosa. Ed è per questo che è interessante leggerlo oggi.
Ady vedrà l’orrore inutile della prima guerra mondiale, ma non vedrà la repressione feroce della Repubblica dei consigli nel 1919. Non arriverà a vedere l’alleanza con il nazismo, poi la sudditanza all’impero sovietico, e poi la rivolta repressa, e poi oggi, nonostante l’Europa, gli eccessi sovranisti dell’Ungheria contemporanea. – Ma ha già visto abbastanza per cogliere la “maledizione” che grava sul suo paese. E, in filigrana, anche le maledizioni future. Ha un cuore di palude, la terra d’Ungheria: “grigio, povero, vile”, come un “lago di morte”: p. 125
Ivano Battiston: intermezzo (“Ropulj, pava, ropulj” o altro)
“Sopra il lago di Morte, noi, uccelli maestosi,
in ampie spirali voliamo, belli, orgogliosi.
Giù, dentro il lago, orridi pesci come serpenti,
pigri, famelici, indolenti.
Quel lago triste, fetido, putrido
ha un altro nome, anche: Ungheria.
Vana è ogni cosa, e noi tutti cadremo,
in questo lago di Morte noi tutti sprofonderemo.
A niente servirono spirito, amore, audacia,
intelligenza, bontà e sagacia.
Mai riusciremo ad averne ragione:
Ungheria resta il suo nome”
[Foto 4. Nuove Poesie, 1906]
È attraverso questo sguardo, uno sguardo di profezia potremmo dire, che Ady approda alla poesia. La prima vera raccolta esce nel 1906. Un titolo semplice. Új Versek, Nuove Poesie. Ha intenti ambiziosi; vuole narrare il mondo, salvare la nazione, sondare Dio, e capire anche sé stesso, questo sé eccentrico, diverso dagli altri, che forse rappresenta una possibilità anche per la palude. Perché anche nella palude sorge l’aurora.
“Sono un uomo di luce, ammantato di nebbia.
Sono desiderio in attesa,
sono miracolo tra gli abitanti della palude.
Nato per portare la luce, qui dentro sono rimasto.
Attendo un mattino che sciolga la nebbia,
attendo che giunga l’aurora …”
Tutto questo gli costa dolore. E solitudine. Come il filosofo che scende nella caverna per portare la luce ai prigionieri, è un uomo solo. Un uomo che dice “no” allo stato delle cose.
Ma nel dire quel no non cancella la speranza. E si sente, appunto, portatore di un compito. Per questo la poesia. “Io grido per altri …” scrive. “E guai a me se tacessi …” Per questo si era sentito da sempre, fin da bambino,
[Foto 5. Ady bambino]
un predestinato: votato alla solitudine, all’incomprensione, alla sconfitta, ma con l’orgoglio della propria differenza, con un fuoco dentro, in quel fuoco sentiva…: p. 131
Ivano Battiston: intermezzo (“Ropulj, pava, ropulj” o altro)
“Senza eredi, senza parenti,
senza fieri antenati, né conoscenti
a nessuno appartengo.
A nessuno. A nessuno.
Sono come ogni uomo: sono regalità,
stella polare, mistero, estraneità.
Fuoco fatuo, lontano.
Fatuo. Lontano.
Ma qui, no, qui non posso restare.
Vorrei potermi mostrare.
Perché mi vedessero,
perché mi guardassero.
E questo solo per poter dire, e con strazio, cantare.
Amerei che mi amassero,
e a qualcuno appartenere …
sì, amerei a qualcuno appartenere”
Ivano Battiston secondo ascolto.
Béla Bartók: Slovakian Folksong e Slovakian Boy’s dance da Ten easy piano pieces
https://www.youtube.com/watch?v=W5ModkyHdOM
https://www.youtube.com/watch?v=oysPB7Zs12I
BLOCCO 3
Caramore racconta:
Ma lì, a Nagyvárad, la prima grande città che conosce, dove comincia a lavorare, a scrivere, a vivere, succede anche un’altra cosa importante nella sua vita.
[Foto 6. Ady e Léda]
È il 1903. Ha appena ventisei anni. E lì conosce “la” donna della sua vita. Quelle che aveva amato – donne di strada ballerine attricette – non erano nulla per lui, erano le destinatarie della sua travolgente esuberanza. Ma lei, Léda, come lui la chiama, lei gli farà davvero conoscere l’amore fatale, la passione, il desiderio. Si chiamava Adél Brüll, era di N., ma viveva a Parigi, con il marito, ritorna ogni tanto in Ungheria, dove suscita scalpore, ammirazione, così eccentrica, così elegante. Per lei, attraverso di lei, matura come uomo, ma anche nell’espressione del linguaggio. La seguirà a Parigi, dove leggerà i poeti francesi, poi di nuovo a Budapest, a Nagyvárad, la fa conoscere a sua madre, che sempre comprende questo suo figlio dannato. Per lei scriverà i versi d’amore più belli: p. 65
Battiston Intermezzo
“Per te sono giunto, e sono ferita rovente.
Mi strazia la brina, mi strazia la luce più ardente.
Per te sono giunto, e anelo a più grande tormento,
per te brucio, in un fuoco di vento.
La tua fiamma si alzi, bianca, incandescente,
E dolgono i baci, fa male la voglia.
Tu sei il mio supplizio, il mio inferno.
e ancora, desidero, ancora.
Sbranato di desiderio, di sangue, di baci,
sì, sono ferita rovente. Ho fame di nuovi tormenti.
Tormenta tu me, l’affamato, il ferito.
Baciami. Bruciami. Baciami.”
Si lasceranno, poi, una diecina d’anni dopo, alla fine di numerosi abbandoni e tradimenti, e Ady avrà per lei solo parole crudeli e sprezzanti:
“Imploro il destino perché la tua sorte
Mai più si mescoli alla mia sorte stellare.
Finisci pure, tu, nel letame o tra i gorghi del mare.
Io ti avevo scoperta. Senza il mio sguardo tu più non esisti.
Senza di me tu sei niente”
Ma non c’era solo Léda, nel frattempo.
[Foto 7. Budapest, Parlamento]
Negli anni tra l’inizio del Novecento e il 1912-13, una diecina d’anni o poco più, molte cose accadono nel paese.
A Budapest si finisce di costruire, nel 1904, la maestosa sede del Parlamento, iniziata negli anni 80: in uno stile neogotico che rispecchia drammaticamente l’ansia di rappresentazione della grandeur del paese, e la sua irriducibile pesantezza.
Come tutti i paesi d’Europa, la nazione è attraversata da correnti in tensione tra loro. Già alla fine del secolo precedente l’impero austro-ungarico, o meglio l’impero asburgico, stava scricchiolando sotto i colpi delle aspirazioni nazionalistiche dei paesi vicini. La paura, il timore di perdere prestigio, generano, come sempre, insicurezza, fanno scattare difese, repressioni.
Ma nello stesso tempo avanza anche il rinnovamento sociale e politico del paese.
[Foto 8. Fabbrica Lang, Budapest]
Agitazioni nelle fabbriche. Gli operai si organizzano nei sindacati, in quello che sarà il futuro partito comunista. Nelle campagne nasce il movimento per l’occupazione delle terre, a Budapest e nelle altre città scioperi per i diritti dei lavoratori, manifestazioni per il suffragio universale. Ma intanto le forze reazionarie affilano i loro coltelli, si preparano a conquistare il potere. L’ammiraglio Horthy inizia con determinazione la sua lunga e feroce carriera, allineata con la destra più estrema, carriera che finirà soltanto dopo aver condotto rovinosamente l’Ungheria, a fianco della Germania nazista, alla fine della seconda guerra mondiale.
Ma nel frattempo, un fervore intellettuale senza pari percorre le strade dell’Ungheria più colta e civile.
[Foto 9. Nyugat] Nascono riviste, prima fra tutte Nyugat, Occidente, la più prestigiosa, dove da subito collabora anche Ady. Nascono circoli culturali, colonie di artisti che vivono insieme.
[Foto 10. Kassak]; pittore e scrittore, traghetta in Ungheria le grandi correnti artistiche del secolo: espressionismo, cubismo, futurismo, dadaismo.
[Foto 11 Lukacs;] Lì scrive il suo grande primo capolavoro, L’anima e le forme, il filosofo György Lukács, che coglierà forse tra i primi la profondità anche teologica di Endre Ady.
E poi la musica. Tutta la musica.
[Foto 12 Bartok] Ma in primo luogo Bartók e Kodály. Bartók comporrà anche cinque canzoni, nell’Opera 16, su testi di Endre Ady. Ma, in generale, è il suono del tempo che colgono Ady e gli altri scrittori, e tutti gli spiriti inquieti del periodo.
Ivano Battiston: terzo ascolto
György Ligeti: Valse da Musica Ricercata
https://www.youtube.com/watch?v=Xys1TyatU1s
BLOCCO 4
Caramore racconta:
Ma abbiamo trascurato Dio.
[Foto 13. Bibbia]
“Sono un calvinista antico, antichissimo” diceva di sé Endre Ady, ricordando le letture bibliche dell’infanzia, che gli avevano fornito quel linguaggio acceso, visionario, come quello di patriarchi e profeti, di dannati e di salvati. Senza essere un uomo religioso, anzi, inviso ai benpensanti sia protestanti che cattolici del suo tempo, il pensiero di Dio occupa in maniera non secondaria i suoi versi. Dio rappresenta da un lato l’enigma dell’inconoscibile (“Dio, lo sconosciuto”). Dall’altro Ady sente che la storia biblica dell’antico Israele, di un popolo oppresso e schiavo, che cade così facilmente nell’infedeltà e nella idolatria, ben si attagliava alla storia del popolo ungherese. Nell’epica biblica vede una sorta di “antefatto” dell’epica magiara. Con un filo di speranza al di là della nebbia. Il popolo schiavo, oppresso, umiliato che viene liberato dal suo Dio, gli appare come una possibilità anche per il suo paese, remota ma non irrealizzabile.
In ogni caso l’immagine che Ady ha di Dio è sempre mutevole, polimorfa. Lo rappresenta, di volta in volta, come un vecchio straccione, arruffato, che vaga senza meta “sotto il monte di Sion”; oppure come la “Grande Balena”, che però, a differenza di quella che accolse Giona e lo rigettò sulla terra, regge a stento sulla sua schiena le anime fragili e l’intero universo; a volte è un Dio spietato e beffardo, altre volte un sogno, un nulla che svapora. Altre volte ancora è un Dio pietoso, che si nasconde dietro il “perdono della luna”. Oppure è Ady stesso che vorrebbe pregare quel Dio come un tempo: “un tempo fiutavo l’odore di Dio”, un tempo “lo andavo a cercare, e si lasciava trovare …”.
È un Dio con cui misurare distanza e vicinanza: p.161
[Foto 14. ritratto Rippl-Rónai]
Ivano Battiston: intermezzo (“Ropulj, pava, ropulj” o altro)
“io credo incredulo, in Dio:
Voglio credere in lui.
Mai per nessuno, tra i vivi e tra i morti,
è stato così necessario.
Quasi traboccano, dal mio cuore spezzato,
i verbi amari,
che l’anno passato ancora eran morti,
erano come un nulla ricamato.
Adesso, ogni cosa si è fatta preghiera.
Ogni cosa è come un bastone
che mi percuote
il cuore, l’anima, il corpo,
come una sete pietosa.
Bellezza, purezza, verità
parole che un tempo deridevo,
ah, fossi morto allora,
quando le disprezzavo.
Integrità, bontà, sapiente audacia,
quanto già allora vi desideravo.
Credo in Cristo, lo attendo.
Ma quanto, ahimè, sono malato”.
….
Ady è un “ateo credente”. Come molti ce ne sono nel mondo. Un ateo che cerca nella figura del Cristo risorto cerca il senso di una umanità perduta, smarrita, incerta sul significato da dare alla propria vita. È di qui che esce uno dei suoi capolavori: “La tristezza della resurrezione” p. 165
[Foto 15. Bramantino (bianco-nero)]
Intermezzo Battiston
“Tra grandi rossi ascessi di nebbia,
mi guardava, sornione un sole finto,
e io dicevo:
Alzati, sei libero.
Forse a Budapest, forse altrove …
A malapena ho qualche ricordo
del mondo di prima.
Ma tristemente sono risorto.
Rotolarono le pietre dal mio sepolcro,
Il Golgota fumava. E io uscii:
incerto, resuscitato,
dalla fonda tomba di drago del passato,
come un uomo dissanguato.
Mi misi in cammino,
per cercare nuovi apostoli.
Furono per me come Tommasi
Gli urlanti boschi dei Tatra, e gli uragani.
Le dita affondate nelle mie ferite
penetrarono dentro di me.
Nebbie intorno,
dentro altre nebbie.
E io, dimentico di tutto,
distrutto,
abbandonai ogni passato.
…………………………
E dissi poi: non so chi sono.
Sono vissuto? O ancora vivo?
Sono il nome di qualcuno,
o erede del triste
nome di un morto?
…………………………..
Sul mio volto, nessuna traccia di scritture antiche
e delle battaglie di un tempo.
La grande leggenda è ormai sbiadita
dai miei vecchi occhi e dal mio vecchio volto.
Sono come un amore mal nato,
e forse mai stato.
………………………………….
Qui, nella valle dei Tatra, c’è un lago:
selvaggio, limpido, scintillante.
Lì dentro io cerco i secoli, la mia vita,
i canti che schiudono le tombe.
Cerco vicinanza a me stesso,
al tempo che se ne va,
allo specchio, all’incanto,
per riconoscermici dentro.
E si ferma la vita.
E so che ormai nulla è più,
nessuno più vive,
e niente è vero.”
In definitiva, è “triste” questa resurrezione perché non si vede nessuna redenzione, né per i singoli individui, né per le nazioni. E tanto meno per la nazione, per il popolo ungherese.
[Foto 16. Antica carta d’Ungheria]
Questo popolo venuto da lontano, di là dagli Urali, che si insedia nei Carpazi così tardi, intorno all’anno mille, in culture totalmente diverse e con più radici, un popolo frustato, straniero anche in patria, dominato, servile, poteva confidare solo in una liberazione e in un perdono, come l’antico popolo di Israele. Qualcosa che fosse un sogno… “Tu, povera, sonnolenta Ungheria, chissà se esisti, e se noi esistiamo?”. Se non c’è quella luce di salvezza, quell’orizzonte di attesa e di speranza, i popoli non possono far altro che ricadere nella mediocrità, nel servilismo, nella dittatura. “Mia bieca, mia odiata, mia amata nazione” … Fu profeta Endre Ady perché seppe vedere, già nel suo presente, le oppressioni che il suo paese avrebbe subito: quella nazista, e poi quella sovietica, e oggi quella rinnovata alleanza tra patria, altare, potere, in una parodia della democrazia.
Ivano Battiston: quarto ascolto György Ligeti: Sostenuto/Misurato/Prestissimo da Musica Ricercata
https://www.youtube.com/watch?v=nIs3jechQ_E
……………………………………………
BLOCCO 5
[Foto 17. Ungheria: prima guerra mondiale]
“Fu una strana, strana notte d’estate.
I tronfi signori dappoco si fecero strada,
l’uomo giusto sparì dalla contrada,
rubò perfino il ladro più schifiltoso.
Fu una strana, strana notte d’estate.
Sapevamo che l’uomo è caduco
E che è in debito grande d’amore.
Tuttavia fu strana la svolta
Del mondo vissuto e di quello di una volta.
…………………………………..
Fu una strana, strana notte d’estate ….
Nell’attesa di Dio, io ricordo
Quella notte tremenda che fece naufragare il mondo.
Quella strana
Strana notte d’estate”.
La strana notte d’estate fu quella che vide l’Ungheria entrare nella prima guerra mondiale a fianco dell’Austria. Ady fu tra quelli che si pronunciarono contro l’intervento. Ma a nulla vale la ragionevolezza dei sapienti contro il potere di seduzione dei potenti. L’Ungheria entra in guerra. Ady non può far altro che cantare lo scempio, la violenza, la distruzione, e, di nuovo, la mediocrità di chi si approfitta di tutto questo. La guerra sarà perduta, il paese smembrato dal trattato del Trianon, e di lì nascerà quello spirito di frustrazione e di rivalsa che non è il miglior consigliere delle nazioni.
Ma di qui, da questa desolazione, ecco che una forza nuova, disperata, ma più consapevole, più matura imprime nuovo vigore a questo “poeta nel tempo della miseria”.
Nel frattempo, negli ultimi anni, quando la malattia già lo stava devastando, aveva sposato una ragazza della buona borghesia,
[Foto 18. Con Csinszka]
Semplice e devota, Berta Boncza, da lui chiamata Csinszka. Un matrimonio un po’ contrastato dalla famiglia di lei, che gli dà un po’ di tregua, ma certo non è sufficiente a rendere felice la sua vita che precipita nella morte. E però for anche questo contribuisce a una trasformazione.
Dagli eroici, e anche astratti, furori dell’età giovanile, le espressioni di Ady si fanno più intime, malinconiche, con uno sguardo più deluso su sé stesso e sul mondo, ma anche più pietoso, in definitiva più umano. Sente la morte che si avvicina e le sue poesie cominciano ad avere temi che alludono alla precarietà della vita:
“Beati coloro che invecchiano” … 151
“Vivere finché viviamo ……” 177
“In vece di chi sono vissuto …” 189
“Ore invece di vita …” 199
[Foto 19. Ady malato]
Poeta acclamato e ovunque molto amato nel paese, ma detestato dai conservatori e dai reazionari, Endre Ady muore di sifilide il 27 gennaio 1919. Gli ultimi anni lo vedono sempre più amareggiato, nervoso, irascibile, rancoroso. Verso la fine della vita, semiparalizzato, incapace di nutrirsi, peggiora rapidamente, e rapidamente si avvia alla morte. Una delle ultime foto lo ritrae dentro un cappotto, che gli sta larghissimo, quasi un fantoccio dentro una coperta. Il paese trepida per lui. Lo eleggono presidente dell’Accademia Vörösmarty, ma non riesce neppure a pronunciare il discorso di inaugurazione.
L’ultimo rigo scritto da lui datato 23 ottobre 1918 si trova sul dorso strappato della sua vecchia Bibbia dell’infanzia: Eli, Eli, lamà sbachtani. Signore, Signore, perché mi hai abbandonato.
Ma intanto, è riuscito a stendere uno sguardo commosso e pietoso sull’essere umano che, qui, solo, sulla crosta del mondo, si è costruito una “capanna di terra” 261.
[La foto di Ady va al centro e lì resta]
“Come è fredda questa capanna di terra.
Come è eroico l’essere umano
Che con ideali e sogni bruciati
Oggi, ancora non vuole morire.
Quante cose sono andate perdute,
eppure le attende, tenace,
era un sogno, un brutto suo sogno,
che solo un miracolo potrebbe salvare.
………..
La vita oggi è un debito orrendo,
chi oggi pianifica, non ha nessun piano.
La paglia delle fedi è umida cenere,
ma vivere comunque bisogna ….
Quanto è lontana la lontananza,
quanto è vina la vicinanza
e come un Dio … l’uomo che non vuole morire
Ivano Battiston: quinto ascolto
György Ligeti: Béla Bartók in memoriam da Musica Ricercata
https://www.youtube.com/watch?v=xKXGJ1m_mE4
Alla fine della fisarmonica tutto al buio, salvo la foto di Ady che resta ancora sullo schermo