RADIO SVIZZERA ITALIANA
FILOSOFIA e RELIGIONE
– a cura di Paolo Rodari –
– a cura di Paolo Rodari –
2) Curare, cosa significa?
Viaggio nella sofferenza e nella cura che porta alla guarigione – Oltre gli investimenti o i tagli alle strutture sanitarie, un problema etico: di consapevolezza, di giustizia, di un bene condiviso
Una bella mattina di inizio dicembre. Il cielo più limpido che Roma possa offrire. Il sole ancora pallido annuncia un prossimo tepore. Esco di casa per sbrigare qualche incombenza. Arrivata al primo piazzale, in fondo alla strada in cui abito, inciampo su un piccolo cespuglio, arranco, cado malamente, e uno strappo lacerante mi squarcia il femore spaccandolo in due pezzi. Anzi tre. …
CURARE, COSA SIGNIFICA?
Viaggio nella sofferenza e nella cura che porta alla guarigione – Oltre gli investimenti o i tagli alle strutture sanitarie, un problema etico: di consapevolezza, di giustizia, di un bene condiviso
Una bella mattina di inizio dicembre. Il cielo più limpido che Roma possa offrire. Il sole ancora pallido annuncia un prossimo tepore. Esco di casa per sbrigare qualche incombenza. Arrivata al primo piazzale, in fondo alla strada in cui abito, inciampo su un piccolo cespuglio, arranco, cado malamente, e uno strappo lacerante mi squarcia il femore spaccandolo in due pezzi. Anzi tre. Il dolore lancinante del corpo annulla ogni pensiero. Tuttavia, aspettando l’arrivo dell’ambulanza, qualcosa mi balugina dentro, formulando punti interrogativi che rimangono inesplorati: chissà se me la caverò? Certo, niente sarà come prima. Sarà questo l’inizio delle ultime fatiche? Più tardi formulerò pensieri più compiuti. Perché non ho fatto più attenzione? C’è sempre un “errore” all’origine di un malaugurato evento? Ma se l’errore fosse invece inscritto non nella distrazione, ma nella debolezza congenita del mio apparato scheletrico? Allora l’errore starebbe prima, nel non essermi presa cura per tempo del mio corpo fragile. Ma anche la fatalità ha il suo peso. In che misura?
Sul momento però c’è poco spazio per simili considerazioni. Dall’istante dell’incidente in poi – per lo più accade a tutti così – si entra in un altro universo che nulla sembra avere a che fare con l’andamento della vita ordinaria: non è solo il dolore che incombe su tutto e che fa convergere in una sola dimensione ogni singolo frammento d’esistenza. La nostra vita, per così dire, non ci appartiene più. Si viene presi in carico, oltre che dal dolore, dalla struttura sanitaria, e da quel momento si entra in un mondo a parte, separato dalla multiforme vita di fuori, lontano dalle proprie abitudini, dai propri compiti, dalle grandi e piccole decisioni di ogni giorno. Tutto viene determinato da un diverso ordine delle cose. D’ora in poi è l’ospedale il microcosmo in cui non solo viene decisa la cura, eventualmente l’operazione, la riabilitazione, i controlli, e così via. Ma ogni ora, ogni momento della giornata, ogni gesto: e di conseguenza ogni pensiero. Non si è più individui, ma “pazienti”: un termine a cui non si fa più caso, ma che significa non solo “coloro che devono sopportare”, ma “coloro che devono patire”. Anche se la guarigione è il fine di ogni trattamento, di fatto ci si preoccupa poco di curare la sofferenza, che viene data per scontata, come una appendice secondaria dello stato patologico.
In realtà la sofferenza riguarda non soltanto i danni fisiologici, ma l’insieme della persona. Non si ha più un nome, il rapporto con i medici è veloce e sfuggente, gli affetti domestici o amicali vengono relegati all’uso del telefono o alle asfittiche ore di visita, il cibo viene imposto, non scelto, la giornata ha scansioni artificiose, lo scorrere del tempo acquista una dimensione irreale, quasi nulla della vita ordinaria viene conservato. Il “paziente” – c’è chi ha più o meno spirito di adattamento – si sente ostaggio della malattia, è smarrito, confuso, impaurito, impoverito del suo patrimonio di esperienza, in balia di medici, specializzandi, farmacisti, operatori, infermieri, aiuto-infermieri, oltre ad altri malati con patologie diverse o analoghe. Il ricovero stesso in ospedale può determinare stati confusionali, infezioni, insonnie, denutrizione, regressioni. Naturalmente le reazioni possono avere variabili infinite. Così come si possono trovare, all’interno di ogni territorio, situazioni di eccellenza e altre di estremo degrado. In ogni caso, tutto – o quasi – dipende dall’organizzazione della struttura sanitaria in questione, dalla bravura e preparazione dei medici, dalla solerzia o dall’ignavia degli operatori, dalla loro gentilezza o dalla loro indifferenza o villania, in una parola tutto dipende da che cosa si intende per “cura” e per “curare”. Se, come talvolta accade, a guidare la macchina ospedaliera è solo la routine, l’affannoso o distratto svolgimento delle mansioni, allora l’obiettivo della “cura” viene a mancare e ci si accontenta soltanto di un automatismo meccanico mal rodato, in cui tutto è previsto, ma nello stesso tempo nulla è orientato a preservare il benessere e la dignità del malato.
Ovviamente in ogni microcosmo sanitario i vizi e le virtù sono gli stessi del mondo fuori: si può trovare chi si sottrae a un minimo gesto che potrebbe recare un enorme sollievo (spendere una parola in più per placare le ansie, usare una precauzione nei movimenti non prevista da nessun regolamento ma che può evitare una sofferenza inutile al degente), e chi invece non guarda all’orologio che segna lo scadere del suo turno per portare consolazione allo smarrimento di chi è “infermo”. Fare soltanto quello che è richiesto da regolamento, senza aggiungere lo scrupolo della verifica di ogni gesto, il dono di una parte di sé, almeno un po’ di calda materia umana, non è sufficiente per colmare il vuoto nel quale il malato si sente precipitare. Sì, perché anche qui, come in molti altri ambiti dell’esistenza, fare “il proprio dovere” è troppo poco, se non si aggiunge quel “sovrappiù” che solo la pura gratuità può dare, colmando con la passione della conoscenza e insieme con una postura amorevole il vuoto in cui si sperde chi è nella debolezza e nella sventura. E d’altronde chi ci mette del suo nel gesto della cura, sempre ne viene ripagato. Quasi mai in termini di denaro, ma di sensatezza delle proprie scelte di vita.
E su un’altra cosa ritengo importare puntare l’attenzione. Spesso nel giudicare l’efficienza di una struttura si guarda soltanto alla capacità di operare dei singoli. Alla bravura, alla competenza, alla generosità dei gesti. In realtà – anche qui, come in ogni altra cosa – sono due i “soggetti” che dovrebbero assumere maggiore responsabilità: da un lato gli individui singoli, che dovrebbero essere provvisti di sensibilità, oltre che di preparazione; ma dall’altro anche il governo della cosa pubblica dovrebbe elaborare delle linee di tendenza più consapevoli della delicatezza e dell’importanza vitale che la cura della salute assume per una nazione. Non si tratta solo di benessere fisico. Si tratta anche di far crescere una fiducia nelle istituzioni, uno sguardo positivo sulle possibilità offerte dal proprio paese. A che serve sviluppare tecniche e organismi di eccellenza, se poi soltanto una parte della popolazione ne può usufruire, mentre l’altra arranca nell’indigenza e nella fragilità? Sento invece parlare principalmente di investimenti o di tagli alle strutture sanitarie, come se il problema fosse solo economico, e non invece anche etico: di consapevolezza, di giustizia, di un bene condiviso. Non sento parlare di “riforma della sanità”, come invece si faceva in passato. Eppure, lo sappiamo, per quanto riguarda l’Italia, a nulla serviranno nuovi finanziamenti, se non si mette mano a una vera riforma del servizio sanitario nazionale: avendo cura – di nuovo, si tratta di “aver cura” – della formazione del personale, ma anche della distribuzione equa dei servizi sul territorio, ridefinendo radicalmente il rapporto tra sanità pubblica e privata. Il mondo si fa sempre più difficile, più articolato, più sfuggente. Occorre alzare l’asticella dell’impegno, non abbassarla, se non vogliamo trovarci a gestire un cumulo di macerie. Partire dalla cura della salute non sarebbe, mi sembra, una cattiva idea.
Gabriella Caramore
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1) DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI DIO?
Sentire parlare di Dio non è più così infrequente come lo era magari anche solo qualche decennio fa, quando il discorso relativo al fenomeno religioso era relegato nelle comunità di fede o negli ambienti vaticani, mentre il mondo laico, specialmente in Italia, riteneva il discorso sul religioso non particolarmente significativo, un po’ di retroguardia. Ora la parola “Dio” – e il bagaglio che si porta dietro – entra con disinvoltura nella pubblicistica laica, nei dibattiti culturali, nei salotti bene: …
DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI DIO?
Sentire parlare di Dio non è più così infrequente come lo era magari anche solo qualche decennio fa, quando il discorso relativo al fenomeno religioso era relegato nelle comunità di fede o negli ambienti vaticani, mentre il mondo laico, specialmente in Italia, riteneva il discorso sul religioso non particolarmente significativo, un po’ di retroguardia. Ora la parola “Dio” – e il bagaglio che si porta dietro – entra con disinvoltura nella pubblicistica laica, nei dibattiti culturali, nei salotti bene: naturalmente con molte semplificazioni e molti travisamenti, che ovviamente nessuno corregge, ma che si moltiplicano all’infinito, fino a non capire neppure più di che cosa si sta parlando: di testi fondativi? Di una vaga idea di spiritualità? Di consuetudini legate alla devozione popolare? Di letture e interpretazioni di seconda, terza, quarta mano? Questi contesti non sembrano sfiorati dal sospetto che, forse, per parlare delle cose di Dio, o anche soltanto delle questioni storiche e culturali che intorno a questa parola si sono aggregate, occorrerebbe molta cautela, molto studio, molti pensieri dubbiosi, molta circospezione. Per fortuna però, parallelamente, si sono moltiplicati anche gli studi esegetici e storici intorno al fatto religioso. Si ha una conoscenza più esatta della formazione dei testi, della loro composizione, dei rimaneggiamenti, dei contesti che li hanno prodotti. Non è più scandaloso parlare di una “invenzione” di Dio, della sua nascita in contesti molto arcaici, che comprendono tutto il Medio Oriente antico, e che pian piano, faticosamente, in mezzo a una pluralità di dei e di figure divine, benevole o malevole, hanno elaborato quella immagine del Dio unico che costituisce il cuore della Bibbia ebraica e lo sfondo imprescindibile di quella anche cristiana.
Ma oggi l’impressione è che non basti più una accurata esegesi dei testi “sacri” per vincere il chiacchiericcio pseudoculturale, e neppure per rianimare quel senso dell’esperienza religiosa che sembra in gran parte perduto dentro il rumore confuso della società post secolare (parlo del mondo cosiddetto “occidentale”). Può anche essere che l’esperienza di fede – per come siamo stati abituati a pensarla nel contesto occidentale – sia giunta a un inevitabile declino. Tuttavia penso anche che non si debba avere timore di una ridefinizione radicale del fenomeno religioso. La nostra è un’epoca di profonda trasformazione. Il presente mostra aspetti drammatici. Il futuro si annuncia denso di misteri e minacce. Ma siamo anche in presenza di un pensiero esigente, critico, avventuroso. Siamo di fronte a scoperte scientifiche affascinanti, a una rivoluzione tecnologica certamente preoccupante, ma anche capace di apportare cure benefiche alle ferite dell’umanità. Proprio per questo non dobbiamo temere, credo, di liberarci dalle gabbie delle dottrine, dai silenzi omertosi della coscienza, dalla zavorra di dettami morali che stridono proprio contro una dimensione etica che l’umanità ha faticosamente raggiunto. Ripensare radicalmente l’eredità religiosa che abbiamo ricevuto dal passato ci aiuterebbe a ripulire la mente da tante sterili incrostazioni, da tanti gravosi silenzi, da tanti ostacoli che fanno ombra a un procedere verso la conoscenza.
E dunque. Di che cosa parliamo quando parliamo di Dio? A me sembra che, in fin dei conti, le religioni siano elaborate costruzioni simboliche nate, sostanzialmente, per indagare la piccolezza dell’umano di fronte all’insondabile mistero dell’universo, da un lato. E dall’altro, per cercare di costruire un ordine sociale che permetta comunità invece di inimicizia, sollecitudine e cura invece di avversione e indifferenza.
Gli antichi hanno prodotto l’immagine di un Dio paterno e materno insieme, creatore e distruttore, misericordioso e tremendo, tenero verso le creature deboli e tremendo verso i trasgressori. Perché non vedere in questa contraddittoria “costruzione” il travaglio del pensiero umano per cercare di penetrare il mistero da cui sono avvolte le creature, la profondità dei cieli e degli universi, l’imprevedibilità e l’inconoscibilità della materia che ci circonda? Perché non accettare l’inarrestabile ricerca della scienza, senza cercare vanamente di trovare improbabili coincidenze tra scienza e fede? Non sarebbe un modo per dare conto della piccolezza umana e della grandezza del suo desiderio di conoscere ciò che è impensabile, inesprimibile, ineffabile?
Ma le vicende del religioso non riguardano solo l’interrogazione sul “Dio sconosciuto”, sulla meraviglia e lo sgomento che ci afferrano di fronte all’immensità di un cielo stellato. Riguardano anche i destini degli umani su questa terra, la loro necessità di convivenza, di sicurezza, e la loro incapacità di muoversi senza violare la pace, senza offendere il fratello, senza infierire su chi è più debole, o senza cercare di annientare chi ci fa paura. Tutta l’epopea delle religioni è piena di storie che ci raccontano, con pena e speranza, questa difficoltà del vivere, il laborioso cammino degli umani nella ricerca della giustizia, nella salvaguardia di un’idea di bene, nel sogno di una libertà mai raggiunta. Non avrebbe senso dispendere al vento quello sterminato patrimonio di sapienza, di cultura, di lacrime e sangue, di passione e di amore, di dolore e lutto, di sogno e speranza che è stato raccolto dentro il grande fiume delle religioni.
Sapendo anche, però, che le narrazioni su Dio e sulle fedi che abbiamo ereditato non sono che preziose “tracce di cammino” da studiare, da consultare, da interrogare per disegnare una mappa nel nostro andare. In quanto tali non sono “verità”. Piuttosto, minuscole scintille di realtà che, di tanto in tanto illuminano i nostri passi.
Da uno studioso del secolo scorso la Bibbia è stata chiamata il “grande codice” dell’Occidente. Oggi mi fa fatica pensare a un unico codice che possa contenere tutta la realtà stratiforme e indecifrabile della contemporaneità. Anche i codici da decifrare si sono moltiplicati. Piuttosto la potremmo chiamare un grande patrimonio, un grande “tesoro” dell’umanità, che non teme di competere con altri tesori. Ma che dà un contributo preziosissimo e ineliminabile nel comprendere, contenere, orientare i sussulti inquieti delle nostre vite.
Un grande tesoro va goduto e custodito. Non nascosto e trascurato. Ma neppure idolatrato senza discernimento. Se ne fa “studio” e “memoria” e “insegnamento”. Quello che va cercato non è a tutti i costi il senso di una “finalità” nella storia del mondo, ma di come continuare a cercare quel minimo denominatore comune che ci permetta di realizzare più comunità e meno ferocia, più amicizia e meno inimicizia, più costruzione e meno distruttività.
Gabriella Caramore
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