DISCIPLINA NELLA METAMORFOSI: LE RIVELAZIONI NELLA PITTURA DI MARILÙ EUSTACHIO.
di
Gabriella Caramore
Ogni espressione d’arte è metamorfosi: prova a fissare in una forma – una parola, un suono, un’immagine, un gesto, una sequenza – senza mai riuscirvi completamente il riverbero di una sensazione, un barlume di verità colto in un attimo, la scoperta fuggevole di un istante. Sì, anche la pittura, la più materica delle arti, quella che sembra fissare per sempre sul corpo della carta, o della tela lo scorrere della vita fluente, in realtà mostra solo per fuggevole allucinazione la cattura di un baleno. Di fatto, la percezione di imprigionare il reale non è che illusione. La pittura di Marilù Eustachio – sia essa cu carta, su tela, su garza, si tratti di disegni a matita o a china, acquerelli, acrilici, pastelli, elaborazioni di materiali di scarto – rappresenta con grande evidenza il carattere della metamorfosi. “Quando traccio su una tela o su un foglio dei segni, quando stendo dei colori, quando inizio un lavoro, mi aspetto una piccola rivelazione, una scoperta: un mondo che affiori dal buio e affermi la sua esistenza, un’immagine inattesa e sconosciuta”. Penso ad esempio alla serie innumerevole di “Teste”, che non sono propriamente volti, ma quasi macchie di colore, contornate però da un bordo scuro, come a voler dire l’individualità di ciascuna, ben separata da ogni altra, in cui le sfumature del colore – a volte ottenute per contaminazione o per sovrapposizione – non nascondono la complessità di ogni soggetto. Quei volti che vibrano dal violetto al verde smeraldo, dal cremisi all’amaranto, dall’indaco al blu intenso, lasciano trasparire un carattere, un pensare, oserei quasi dire una storia: anonimi e nominati al tempo stesso. Parlare di arte figurativa o di arte astratta nel caso di Eustachio non ha senso. La sua è un’arte metamorfica anche in questo. Scivola da una forma all’altra, attendendo che l’immagine si accenda – non solo in lei che dipinge, ma anche nello spettatore che scruta le sue opere – “nel margine del rischio, dell’irrisolto”. Così le montagne dei suoi amati paesaggi altoatesini, luoghi della sua origine e del suo ricordo, più che “fotografie” sono memoria, dolore e tenerezza al tempo stesso, “punto di partenza e di ritorno”. Così gli alberi, umani e vegetali al tempo stesso. Così i fiori, sensuali e caduchi. Così gli angeli, “forme corporee e celestiali”. E ogni altra cosa creata dalle mani di Marilù, quasi guidate da una necessità di esplorazione, da una tensione “tra realtà e immaginazione”.
È però necessario, per accostarsi all’opera di Eustachio, tener conto di come tutto questo lavorio che conduce a un esito sospeso, indefinito, sia frutto di una costante, accanita disciplina. Lo testimoniano,
ad esempio, i suoi innumerevoli Taccuini (centinaia? comunque esercizio quotidiano a partire dal 1986), pieni di annotazioni minute sulla giornata, su un piccolo evento, corredati di uno schizzo, di un tratto di penna, di citazioni: tutti esercizi che giorno per giorno hanno costruito il suo fare e il suo pensare. Ne sono prova le sue passioni di lettrice devota, metodica, che sa gustare, assaporare la costruzione di una frase, di un’intuizione, di un racconto, poi rimuginato a lungo nello spazio interiore, fino a far risuonare di sé un quadro, un disegno, una fotografia. Sì, perché tra le varie sperimentazioni dello sguardo pittorico di Marilù c’è anche la passione per la fotografia: limpida e trasfigurata, commossa e distaccata.
Forse è difficile, per chi conosca Marilù, riconoscere il rigore della disciplina, la costanza dell’attenzione in quel suo essere scanzonata, ironica, bozzettistica nel raccontare scenette trasteverine, affettuosa con gli amici, cui però non risparmia battutine sarcastiche stemperate in un sorriso. Ma avere disciplina non significa corrispondere a regole formali. Piuttosto, cercare dentro di sé, e nel mondo fuori, un amore per l’esattezza, con lo scopo di “giungere al riconoscimento dell’ordine e della necessità che governano le cose”. Le quali mai sostano, ma si trasformano nella loro eterna metamorfosi.
Alla fine, è Marilù stessa che chiarisce il senso della sua pittura: “Per essere sé stessi, per essere diversi da sé stessi, per essere incerti”.
Grazie, cara Marilù, per quella incertezza che ci mostri.
Roma, 11 aprile 2024